La ricchezza del petrolio nelle mani dei jihadisti

BEIRUT. – Dai 3 ai 6 milioni di dollari al giorno: a tanto ammonterebbero, secondo fonti di Intelligence israeliane, le entrate dalle vendite di petrolio su cui può contare lo Stato islamico (Isis), grazie alla produzione di 60 pozzi sotto il suo controllo tra Siria e Iraq. Una ricchezza che gli consentirebbe non solo di continuare a rifornirsi di armi e di pagare lautamente i suoi miliziani, ma anche di comprare l’appoggio di tribù sunnite locali. La fonte, citata  dal quotidiano Haaretz, parla di “straordinarie risorse economiche” per il Califfato guidato da Abu Bakr al Baghdadi, quali nessuna organizzazione terroristica ha mai potuto avere prima d’ora. Un allarme che trova conferma presso autorità locali irachene. Solo con la produzione della regione di Himrin, nella provincia irachena di Diyala, non lontano dal confine con l’Iran, l’Isis guadagnerebbe 600.000 dollari al giorno, secondo quanto affermato dal sindaco di una città della regione. “I jihadisti – ha detto Oday al Khadran, sindaco di Khalis – riempiono circa cento autobotti al giorno di greggio, che viene consegnato a commercianti senza scrupoli a Mosul o in Siria. Qui viene venduto a mediatori stranieri a circa 4.000 dollari per ogni autobotte, circa l’80 per cento in meno rispetto ai prezzi di mercato in Europa”. Proprio la vendita del petrolio a prezzi fortemente ribassati, sottolineano varie fonti in Siria, ha consentito allo Stato islamico di assicurarsi l’appoggio di clan tribali armati delle province settentrionali di Raqqa e di Dayr az Zor. In quest’ultimo territorio, il più ricco di risorse energetiche in Siria, l’Isis controlla quattro dei cinque principali giacimenti. Mentre nei mesi scorsi ha cercato di impadronirsi, senza riuscirci, anche del giacimento di gas di Shaer, sulla strada tra Palmyra e la città di Deyr az Zor, capoluogo dell’omonima provincia. In Iraq i giacimenti sotto il controllo dei jihadisti, nelle aree di Tikrit e della provincia di Al Anbar, sono minori rispetto a quelli ben più importanti nel sud del Paese, in regioni sciite che non sembrano minacciate dalla loro avanzata, e a quelli di Kirkuk, ad ovest della regione autonoma del Kurdistan, che le milizie dei Peshmerga hanno posto in sicurezza prendendo il posto dell’esercito di Baghdad, che si è dato alla fuga. Il ministero del Petrolio iracheno ha reso noto che le proprie esportazioni non hanno subito gravi contraccolpi nel mese di agosto, raggiungendo un valore di oltre 7 miliardi di dollari. Il greggio è stato tutto imbarcato nei porti nel sud del Paese, sul Golfo, poiché l’oleodotto da Kirkuk verso Ceyhan, in Turchia, è chiuso fin da marzo a causa di attentati. L’Isis però non cessa di minacciare le più importanti strutture petrolifere del Paese, in particolare il complesso di raffinerie di Baiji, 40 chilometri a nord di Tikrit. Il comando delle forze anti-terrorismo di Baghdad ha detto che un nuovo tentativo dei jihadisti di impossessarsi del sito è stato respinto e 26 miliziani sono stati uccisi. Gli esperti ritengono che, anche se dovesse conquistare Baiji, lo Stato islamico non sarebbe in grado di far funzionare gli impianti. I jihadisti, infatti, si limitano a contrabbandare verso l’estero petrolio non raffinato in cambio di valuta e di prodotti derivati. Ma la loro presenza a ridosso di uno dei più importanti siti del Paese resta comunque un fattore di incertezza che rischia di recare gravi danni ai progetti di sviluppo dell’industria petrolifera irachena. (Alberto Zanconato/Ansa)