La diplomazia del “microfono” e i nuovi prestiti della Cina al Venezuela

Accordi-Venezuela-Cina

CARACAS. – Non stilettate ma vere e proprie sciabolate. Non è il discreto linguaggio del diplomatico che accusa, senza accusare; che dice, senza dire; che afferma, senza affermare. La cautela negoziatrice di chi sa che lo scontro frontale è poche volte il cammino adeguato, è ormai parte del passato. Il confronto, nella scacchiera internazionale, si svolge non solo con accuse urlate ma anche con espressioni dispregiative. Non è più il passo ovattato e aggraziato del felino ma quello tosco e goffo dell’elefante.

La “Casa Amarilla” ha una lunga tradizione. Non è necessario ricondurci al lontano 1811, anno in cui Juan Germàn Roscio, di origini italiane, fu nominato primo ministro degli Esteri del Venezuela. Sono sufficienti solo alcuni dei nomi che si sono alternati in questi anni di governi democratici; nomi di illustri intellettuali oggi ricordati con ammirazione: Andrés Eloy Blanco; Oscar García Vellutini, René Oscar De Sola, Aristide Calvani; Ramón Escobar Salom, Simón Alberto Consalvi, Germán Navas Carrillo, Enrique Tejera París, Angel Burelli Rivas. Alla loro diplomazia accorta, elegante, prudente ma concreta oggi si contrappone quella del “microfono”. Sembrerebbe che la diplomazia del presidente Maduro sia più attenta agli effetti propagandistici che a risolvere i conflitti sullo scacchiere internazionale o a mantenere i delicati equilibri regionali.

E’ in questo contesto che necessariamente dobbiamo collocare il “botta e risposta” tra Venezuela e Stati Uniti, dopo l’annuncio del presidente Obama di applicare severe sanzioni contro sette funzionari ed ex funzionari del Governo Maduro.

La decisione del presidente Obama ha permesso al capo dello Stato, la cui popolarità è ancora ai minimi storici, di ricompattare le file del “chavismo”, anch’esso duramente provato dalla crisi economica. Le manifestazioni “antimperialiste” che si susseguono, gli appelli incendiari del presidente Maduro, le parole aggressive del presidente dell’Assemblea nazionale sono tutte orientate a risvegliare il nazionalismo e a far leva su di esso per distrarre l’attenzione da altri problemi. Ad esempio, quelli semplici legati alla quotidianità.

Il duro confronto tra il ministro degli Esteri venezuelano, Delsy Rodriguez, che ha accusato gli Stati Uniti di ordire progetti egemonici e di tessere trame per creare un clima di instabilità politica e di impoverimento economico; e la risposta altrettanto dura dell’Ambasciatore americano Michael J. Fitzpatric, il quale ha assicurato che il suo paese “non sta preparando una invasione del Venezuela, non pretende destabilizzare il governo del presidente Maduro e non fa parte di una cospirazione internazionale per causare danni all’economia o al popolo venezuelano”, è parte di questa strategia che in passato ha dato ottimi risultati. La “diplomazia del microfono” è andata avanti durante tutta la settimana, con alti e bassi. E la decisione del governo Maduro di pubblicare una lettera aperta sul New York Times solo illustra, qualora ce ne fosse ancora bisogno, come nelle alte sfere governative stiano molto attenti all’“effetto propaganda”. Nella “Lettera Aperta” si sostiene che il Venezuela non rappresenta una “minaccia” per gli Stati Uniti. Al contrario, si afferma che il Paese crede nella pace, nel rispetto del diritto internazionale e in una società̀ aperta. E quindi esige che il presidente Obama faccia un passo indietro e revochi le sanzioni contro sette funzionari ed ex funzionari del governo, annunciate nei giorni scorsi. Dal canto suo, il governo Obama ha spiegato a chiare lettere al Congresso nordamericano che non desidera la “caduta” del governo Maduro e ha invitato gli alleati latinoamericani ad aiutare a trovare una soluzione alla grave crisi che vive il Venezuela; crisi che, sottolineano da Washington, non dipende ne è stata causata dagli Stati Uniti.

Mentre i riflettori sono tutti puntati sulla polemica tra Stati Uniti e Venezuela, l’Opposizione si prepara ad affrontare le “primarie”. Sarà questo un appuntamento molto delicato. L’Opposizione è ormai abituata a farsi male, specialmente quando è alle porte di un processo elettorale. Il pericolo di divisioni, in seno ad un movimento assai eterogeneo mantenuto assieme non più solo da sentimenti “antichavistas” ma anche dalla convinzione della necessità di un cambio di direzione nel governo del Paese, è sempre presente. Ma l’Opposizione è maturata. Le battaglie per le liste e per un posto in Parlamento sicuramente accentueranno le differenze tra gli integranti della “Mesa de la Unidad”. E la scelta dei candidati fuori dalle primarie, poi, rischia di riscaldare gli animi. Ma la vera forza dell’Opposizione risiede proprio nella diversità; nelle differenze di vedute e nella capacità di esporle, nel dialogo aperto e democratico, nel dibattito nel rispetto.

Candidature e campagna elettorale. Le primarie saranno un “antipasto”, un primo assaggio. E avranno il compito di proiettare l’immagine rassicurante di un’Opposizione unita. Se si andasse alle urne oggi, stando ai sondaggi, vincerebbe comodamente. Probabilmente solo otterrebbe una comoda maggioranza relativa; maggioranza che comunque permetterebbe alla coalizione di opposizione di approvare nuove leggi e modificare e migliorare quelle già esistenti. Ma le elezioni non sono oggi e i sondaggi riflettono umori e stati d’animo; umori e stati d’animo mutevoli. E poi c’è sempre l’imponderabile che potrebbe rimescolare lo spettro politico. Chi non ricorda “l’effetto voto” che ebbero le “misiones” annunciate dall’estinto presidente Chàvez?.

Debito estero e valuta. Polemica e provocazione. Se nell’ambito politico il clima è sempre assai arroventato, in quello economico non è certo meno teso. Gli economisti attendono con interesse, ed una buona dose di timore, le prossime scadenze. E cioè il momento in cui il governo del presidente Maduro dovrà sborsare ingenti somme di denaro ai proprietari di Buoni di Pdvsa e dello Stato. La Repubblica, stando alle cifre rese note dalle agenzie specializzate e dagli organismi multilaterali, dovrà pagare ben 52 mila 136 milioni di dollari tra il 2015 e il 2019. A tanto equivale il suo debito, dollaro più, dollaro meno.

Tra l’incudine e il martello. Restando sempre a quanto affermano gli esperti in materia, il governo del presidente Maduro dovrà prendere prossimamente una difficile decisione: evitare il default o investire nel Paese; rispettare gli impegni presi a livello internazionale o orientare la valuta, oggi assai scarsa dopo la vertiginosa caduta del prezzo del greggio, a soddisfare le esigenze dei venezolani. Il prestito che, come hanno informato le agenzie stampa, starebbe negoziando il governo del presidente Maduro con la Cina, risponderebbe alla necessità di soddisfare ambedue le esigenze. Ed infatti, da un lato permetterebbe di rispettare le prossime scadenze nel mercato finanziario internazionale e, dall’altro, consentirebbe d’importare beni, generi alimentari e medicine di cui hanno bisogno i consumatori e di assegnare valuta, alle poche industrie che ancora producono, per l’acquisto della materia prima all’estero. Il prestito della Cina, poi, si potrebbe trasformare in quell’”imponderabile” capace di trasformare lo scenario elettorale.

Stando a quanto pubblicato da agenzie di stampa, l’accordo tra Cina e Venezuela contempla un prestito di circa 10 miliardi di dollari nei prossimi mesi. Sarebbe la boccata di ossigeno di cui ha bisogno l’esecutivo. I 10 miliardi, infatti, potrebbero essere un “tappo” temporaneo alla recessione; un “tappo” che permetterebbe di affrontare il prossimo appuntamento elettorale in migliori condizioni.

 (Mauro Bafile/Voce)