La Cina prima per import petrolio. E abbassa ancora i tassi

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NEW YORK. – Il Dragone cinese rallenta costringendo la banca centrale a tagliare, per la terza volta in sei mesi, i tassi di interesse. Nonostante questo la fame di petrolio non si placa, e anzi procede a gonfie vele, tanto che la Cina strappa per la prima volta agli Stati Uniti il primato di maggiore importatore di greggio al mondo in aprile. Un sorpasso storico che mostra i radicali cambiamenti sul fronte energetico dell’ultimo decennio, inclusa la rivoluzione shale che ha reso gli Stati Uniti meno dipendenti dal petrolio straniero.

L’ascesa cinese a primo importatore di petrolio al mondo potrebbe influenzare i prezzi degli accordi petroliferi e avere effetto sulle relazioni di Pechino e Washington con i produttori del Medio Oriente. Questo anche alla luce del pressing dei produttori petroliferi americani, che chiedono al governo di allentare le restrizioni alle esportazioni di greggio in vigore dallo shock petrolifero degli anni 1970.

Con una crescita al 7% la Cina ha bisogno di petrolio, affermano alcuni osservatori. Ma il +7% del primo trimestre è per la Cina la crescita più bassa degli ultimi sei anni. Un rallentamento che si sta ripercuotendo anche nel secondo trimestre e che spinge alcuni analisti a mettere in dubbio il target di crescita fissato da Pechino per il 2015. La frenata economica spinge la banca centrale cinese a intervenire nuovamente tagliando i tassi di interesse per la terza volta da novembre, nel tentativo di sostenere l’economia.

A partire da lunedì scorso, i tassi sui finanziamenti a un anno sono scesi di 0,25 punti percentuali al 5,1% e quelli sui depositi, tagliati dello stesso ammontare, al 2,25%. Il taglio – afferma la banca centrale – aiuterà lo sviluppo dell’economia, che si trova ”ancora a far fronte a forti pressioni al ribasso”. Secondo gli analisti, la banca centrale cinese interverrà ancora riducendo il costo del denaro se l’economia, come previsto, resterà debole. Sembra invece in ripresa, dopo la gelata del primo trimestre, l’economia americana, con il mercato del lavoro che migliora.

Ma questo non convince le maggiori aziende statunitensi e riportare i soldi in patria: le 50 big americane hanno parcheggiati oltreoceano 1.100 miliardi di dollari. Le tasse americane e la debole economia globale sono – secondo alcuni osservatori – un deterrente al rimpatrio. Inoltre la possibilità di indebitarsi a basso costo, grazie ai tassi ai minimi, consente alle aziende di continuare a investire senza toccare i fondi all’estero.