Il traffico dei reperti archeologici finanzia le casse dell’Isis

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ROMA. – Ad alimentare il fiume di denaro che affluisce nelle casse dell’Isis e ne finanzia l’organizzazione territoriale e la Jihad, c’è anche l’archeologia. Diverse organizzazioni hanno denunciato nell’ultimo anno il traffico clandestino di reperti assiro-babilonesi, ma anche romani, di provenienza mediorientale diretto verso il ricco mercato del collezionismo in Occidente. Il tutto, ovviamente, in barba alla propaganda iconoclasta orgogliosamente esibita dai jihadisti nei loro filmati di distruzione sistematica di arte e rovine antiche – dai quali vengono dunque salvati i pezzi migliori e, soprattutto, trasportabili.

Una fonte di introiti ingente, che integra le donazioni e i finanziamenti occulti, il lucroso commercio clandestino del petrolio dai pozzi del nord dell’Iraq e della Siria, i prelievi forzosi imposti ai correntisti nei territori controllati e altre forme di “tassazione”. Secondo Michael Danti, un archeologo che lavora per l’ong Syrian Heritage Initiative, con base negli Usa, che si occupa di tutelare il patrimonio culturale siriano, “rileviamo pesanti saccheggi nelle aree controllate dall’Isis”, il quale, secondo Danti “controlla anche il contrabbando”.

E molto del traffico sembra diretto verso la Gran Bretagna, come ha rilevato di recente il Washington Post, attraverso Turchia, Giordania, Libano. Secondo quanto denunciato dall’archeologo David Gill a Bbc radio 4, molti galleristi britannici candidamente mostrano reperti “or ora arrivati dalla Siria” o “appena usciti dall’Iraq”. “Ricevo contatti continui su reperti trafugati”, ha confessato alcuni mesi fa al Times Christopher Marinello, direttore dell’ong britannica Art Recovery International, secondo il quale gli oggetti più costosi suscitano sospetti nei potenziali acquirenti e il grosso del commercio clandestino finisce per essere quello di oggetti di valore medio.

Il sito dell’agenzia Bloomberg riferisce anche di un archeologo dell’Ohio, Amr al Azm, che si è prestato a fare da “esca”: un messaggio di Whatsapp sul suo iphone gli mostrava un antico vaso mesopotamico del valore di 250.000 dollari, un pezzo di un lotto di “elevato interesse”. Lui si è finto interessato. E su un diverso account ecco un secondo messaggio: il reperto può essere trafugato attraverso il Libano.

Il giro d’affari effettivo al momento è difficile da quantificare, ma di sicuro anche per i distruttori degli “idoli” e delle culture pre-islamiche sembra valere l’antico detto, anch’esso pre-islamico, “pecunia non olet”.