Afghanistan: Obama ci ripensa, 5.500 soldati fino al 2017

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WASHINGTON. – Non deve essere una delusione, ma lo è. Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha dato quell’annuncio che si era impegnato ad evitare entrando alla Casa Bianca sette anni fa: il Commander in chief ha dovuto rinunciare al ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan, perché la sicurezza sul terreno resta troppo fragile.

La missione non cambia, ha insistito Obama, ma i soldati Usa resteranno anche oltre la fine del suo secondo mandato. Per la gran parte del 2016 rimangono così in Afghanistan i 9.800 soldati americani attualmente di stanza nel Paese. L’eredità che poi Obama lascerà al prossimo presidente sarà di 5.500 truppe Usa ancora in campo nel 2017.

A Bagram e Jalalabad nell’est, a Kandahar nel sud. “Sono profondamente convinto che bisogna fare questo ulteriore sforzo”, ha detto Obama annunciando la marcia indietro.

Ed è la seconda volta che è costretto a rimandare il ritiro completo dall’Afghanistan che aveva promesso. Una guerra lunga 14 anni: il presidente lavora di cesello nello scegliere le parole per comunicare al Paese che non è finita.

Nella consapevolezza inoltre – e non è un dettaglio – che che la presenza in Afghanistan costa a Washington 14,6 miliardi di dollari all’anno.

“Da Commander in chief non posso permettere che l’Afghanistan diventi un rifugio sicuro per i terroristi”, ha affermato.

“Credo che questa missione sia vitale per la nostra sicurezza nazionale nella prevenzione di attacchi terroristici contro nostri cittadini e contro la nostra nazione”, ha sottolineato, spiegando che la sicurezza sul terreno è ancora troppo fragile e che le forze afghane non sono ancora forti abbastanza per essere lasciate sole.

“Nel governo afghano abbiamo un partner serio che vuole il nostro aiuto”, ha insistito Obama. “La nostra missione non cambia, le nostre truppe si concentreranno sull’addestramento degli afghani e sulla lotta al terrorismo”.

Una scelta necessaria quindi, ma anche una delusione personale? “Non è una delusione. Come ho detto più volte, il mio approccio è quello di valutare la situazione, effettuando aggiustamenti dove e quando necessario. Non è la prima volta che accade e probabilmente non sarà l’ultima”.

L”aggiustamento’ era nell’aria da giorni. Decisiva è risultata la situazione sul terreno. Kunduz sotto assedio, presa dai talebani, poi costretti al ritiro ma solo dopo giorni di furiosi combattimenti (e dopo l’errore fatale del bombardamento dell’ospedale di Msf), rende concreto il timore che il pericolo si sposti adesso dalle aree rurali ai centri urbani, con quello che è visto come un cambio di tattica strategico degli insorti.

Mentre proprio ieri i talebani afghani si fanno vivi lanciando il loro di messaggio: sostengono di essere pronti ad “un negoziato con tutte le parti interessate” per porre fine ai combattimenti a condizione, sottolineano, che “termini l’occupazione” del territorio afghano e che “le truppe straniere si ritirino”.

(Anna Lisa Rapanà/Ansa)

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