Lotta all’Isis: Obama cambia strategia, forze speciali in Siria

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NEW YORK – Impossibile, fino a un mese fa. Improbabile, poche settimane or sono. Una realtà, da meno di una settimana. Il presidente Barack Obama ha capitolato di fronte alle insistenze del Pentagono e dei suoi consiglieri.

E ha annunciato l’invio di un piccolo contingente di “forze speciali” nel nord della Siria. Queste opererebbero senza il permesso del governo di El Assad. Ma l’Isis rappresenta un nemico comune per Washington e Damasco.

Obama, quindi, affronta ora il difficile gioco degli equilibri dialettici: la contraddizione tra promesse e realtà. Infatti, il capo dello Stato si era impegnato non solo a riportare in America le proprie truppe che ancora operano nei teatri di guerra ma anche a non permettere in futuro la presenza di soldati americani nelle aree calde del mondo.

La decisione, presa in questi giorni, potrebbe essere un duro colpo alla sua credibilità e incidere nella campagna elettorale dei candidati democratici.

A obbligare ad un doloroso “dietro-front” il presidente Obama non sono state solo le crescenti pressioni esercitate dai consulenti militari e dallo stesso Pentagono ma soprattutto l’imponente impegno militare della Russia che sta trasformando Vladimir Putin nel principale protagonista dei nuovi equilibri regionali.

L’azione dell’aviazione americana e russa pare non aver ottenuto, per il momento, l’effetto sperato. Ha rallentato l’avanzata dell’Isis; ridotto la spinta dello Stato Islamico, ma non ha potuto ottenere una totale ritirata. L’Isis continua ad avanzare, lentamente e tra “stop & go”. E ciò preoccupa gli americani.

La Casa Bianca difende la nuova strategia decisa nelle stanze del Pentagono e autorizzata, suo malgrado, dal presidente Obama sottolineando che non si tratta, come in passato, dell’invio massiccio di truppe. Tantomeno, di una campagna militare che impegna in prima linea i soldati americani.

Infatti, spiega la Casa Bianca, sarà coinvolto un piccolo contingente di “forze speciali” che opererà nelle retrovie svolgendo il ruolo d’istruttore dei ribelli meno radicali che lottano contro l’Isis e che si sono conquistati la fiducia di Washington.

Quanto sia possibile evitare il conflitto a fuoco, una volta in territorio siriano, è difficile da dire. Nessuno può assicurare che i soldati americani non debbano rispondere al fuoco nemico, come accaduto durante un’operazione in Irak per liberare alcuni prigionieri in mano agli jihadisti.

La nuova strategia suggerisce un approccio diverso del Pentagono, favorevole a non aumentare la presenza nordamericana nella lotta contro il Califfato ma a renderla più efficace.

Imprevedibili i risvolti della decisione di Washington sulla campagna elettorale. Bisognerà attendere. Nelle prossime settimane sarà possibile valutare con maggior precisione la reazione delle forze in campo.

Ovvero, quelle dei conservatori, tradizionalmente propensi all’intervento militare americano, e quelle dei progressisti, schierati principalmente con le correnti antimilitariste da sempre sostenute soprattutto dai più giovani.

(Mariza Bafile/Voce)