Iran: economia, ora svolta verso il privato?

A rilevarlo è l'economista Saeed Leylaz, che nel 2009 finì in carcere per aver criticato il governo Ahmadinejad.
A rilevarlo è l'economista Saeed Leylaz, che nel 2009 finì in carcere per aver criticato il governo Ahmadinejad.
A rilevarlo è l’economista Saeed Leylaz, che nel 2009 finì in carcere per aver criticato il governo Ahmadinejad.

TEHERAN. – L’economia iraniana che sta per aprirsi al mondo, con l’implementation day dell’accordo sul nucleare, ha tre gravi problemi da affrontare: la corruzione, la necessità di aumentare la produttività ed un bisogno di investimenti per 400 miliardi di dollari, 250 dei quali solo nell’oil&gas.

A rilevarlo è l’economista Saeed Leylaz, che nel 2009 finì in carcere per aver criticato il governo Ahmadinejad. I problemi dell’Iran, spiega in un’intervista all’Ansa, derivano in primo luogo “dalla presenza del governo nell’economia, aumentata in modo drammatico negli ultimi dieci anni. Quindi dovremmo privatizzare e soprattutto liberalizzare”, affrontando una questione strutturale quale la presenza di soggetti pubblici nel “65-70% dell’economia”: non solo il governo, precisa, ma vere potenze come le fondazioni religiose e le Guardie della rivoluzione.

Una pesante eredità che proviene dall’epoca del presidente Ahmadinejad – ribadisce, pur attribuendone la responsabilità non alla persona ma al sistema -, quando le massicce entrate di valuta estera create dall’alto prezzo del petrolio favorirono appunto la corruzione e una cattiva gestione dell’economia.

“Fortunatamente il prezzo del petrolio è molto calato – paradossalmente rileva – e la scarsità delle risorse non ci permette più di agire in modo irrazionale”. Cioè appunto producendo corruzione, scarsi investimenti e bassa produttivita’. E sopratutto, aggiunge, “dispotismo”. Nei due mandati presidenziali del pragmatico Rafsanjani e del riformista Khatami (dagli anni Novanta al 2005) – spiega con numeri alla mano, le entrate del petrolio erano di 5-6 volte inferiori a quelle del periodo di Ahmandinejad (2005-2013), ma i tassi di crescita erano del 5-6%, contro l’1,5% dell’epoca del loro successore.

“Se hai molta valuta forte non hai bisogno delle tasse né del voto della gente, e il dispotismo diventa l’altra faccia della medaglia. Tutto il sistema si è allora stretto intorno ad Ahmadinejad, compresa la magistratura. E chi criticava tale sistema finiva in carcere come me”.

Intanto cresceva il divario tra ricchi e poveri, con una nuova e ristretta classe di super ricchi e importatori di auto di lusso, mentre “le masse non possono comprare il latte”. “Ma ora la festa è finita, non c’è più benzina per la corruzione”. Tuttavia, ora “il problema è che non abbiamo abbastanza denaro per comprare, così se le compagnie straniere vogliono venire devono farlo non per vendere ma per investire nel Paese”.

Ed è meglio che lo facciano, aggiunge, cercando partner in quel 30-35% di settore privato, benché questo – riconosce – conti ancora solo poche aziende medio-grandi e tanti piccoli imprenditori, soprattutto nell’agricoltura e nel commercio. Ma a favorire gli investimenti vi sarà, assicura, la stabilità politica, “che è molto importante per tutti gli iraniani, anche quando sono all’opposizione: anche il movimento verde del 2009 non voleva metterla a rischio. Per questo siamo arrivati al governo di Rohani, con tutte le forze che si sono orientate verso il centro” e la Guida suprema Ali Khamenei che guarda a Rohani “come salvatore del sistema al pari della sinistra”.

E la stessa cosa, Leylaz non ha dubbi, accadrà di nuovo anche nelle legislative del 26 febbraio 2016. Qualunque sia la data in cui l’accordo sul nucleare andrà effettivamente in vigore, infatti, Rohani ha avuto il merito di farlo, rileva. E ora, se è vero che non ha il controllo della magistratura che gli è ostile, la sua lotta alla corruzione la sta facendo con gli strumenti del governo: “risparmiando risorse, riducendo il gap tra interessi bancari e inflazione e tra tasso ufficiale e di mercato nel cambio del dollaro”.

E recuperando così “miliardi di dollari l’anno”. Ma intanto anche fra i pochi ricchi creati dal decennio passato le posizioni stanno cambiando, secondo Leylaz, e alla fedeltà all’ex presidente subentra la ricerca del proprio interesse. Che non può che trarre vantaggio da un’apertura diplomatica anche agli Usa, per la stabilità in Siria e Medio Oriente.

“Forse avremo un settore privato nuovo – prosegue – come la nomenklatura uscita dall’ex Urss”. Un’oligarchia che ha portato i capitali all’estero, ma che ora – auspica Leylaz, il governo dovrebbe cercare di attrarre “perché investa nel Paese, creando un nuovo settore privato”. “Sono ottimista sul medio periodo – conclude – ma ora c’è molto da lavorare”.

(di Luciana Borsatti/ANSA)

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