Davos: la paura della crisi gela la festa dei finanzieri

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DAVOS (Svizzera). – Nessuno di loro lo dice troppo forte nei saloni e corridoi che li riparano dalla neve e dal freddo delle Alpi svizzere. Ma il gran consesso dei finanzieri, capitani d’industria e governanti riunito a Davos, anche se ostenta molta fiducia e persino euforia, rischia di essere l’ultima festa prima di una nuova crisi.

Gli economisti riuniti al Forum economico mondiale sono divisi: fra chi vede una normale correzione dei mercati e si sente rincuorato dalle parole del vicepresidente Usa Joe Biden che celebrano il modello economico Usa delle “opportunità”. E chi, invece, teme una terza fase della grande crisi iniziata proprio negli Usa ormai quasi dieci anni fa come Ken Rogoff, prof di Harvard ed ex Fmi: “Chi dice ‘questa volta è diverso per la Cina’ tiene la testa sotto la sabbia”.

Per tutti, piombano come un fulmine a ciel sereno le parole di Christine Lagarde: dopo il taglio delle stime di crescita globali, il capo del Fmi ha avvertito che ci sono “dei rischi all’orizzonte maggiori del previsto”. I mercati in caduta libera, nel frattempo, si sono incaricati di far sapere che gli investitori quei rischi li prendono sul serio. Da una c’è la fuga di capitali dagli emergenti ora accoppiata al dollaro in rialzo, una mina vagante per il debito di Paesi come il Brasile.

Dall’altra il petrolio (ieri -7%) e le materie prime ai minimi. Che potrebbero persino dare una mano ai consumi, se non fosse che l’Europa è sull’orlo della deflazione e anche negli Usa i prezzi procedono a un ritmo esangue. “Non prevedo ulteriori scossoni sulle borse” – ragiona a Davos il premio Nobel Edmund Phelps – “ma al calo del petrolio non c’è un limite aritmetico: 10, cinque dollari?”. E avvicinandosi quel limite, il professore americano avverte che nessuno può escludere perdite massicce per qualche grande investitore Usa, potenziale miccia per una nuova crisi finanziaria.

Il ragionamento della Lagarde, che potrà anche confrontarsi con Mario Draghi non appena l’italiano arriverà una volta finito il consiglio Bce, ruota soprattutto sulla Cina e il suo Pil frenato ai minimi di un quarto di secolo. Nouriel Roubini, guru finanziario e gran mattatore dei party di Davos, dice di non vedere un nuovo 2008, cioè una recessione globale o una crisi finanziaria. Ma nota anche che la Cina, con l’eventualità di uno ‘sboom’ violento, rappresenta un rischio e che tocca a governi e banche centrali, in primo luogo a Pechino, scongiurarlo.

E Michael Spence, altro Nobel americano, mette il dito nella piaga delle banche centrali. “Per ora ci troviamo solo di fronte ad una forte volatilità dei mercati, ma alla lunga è possibile (una crisi, ndr) perché avere per lungo tempo una situazione con tassi così bassi può essere pericoloso e insostenibile”. Vuol dire che la politica delle banche centrali può destabilizzare. Ma c’è anche un’implicazione implicita, e cioè il fatto che, a differenza del 2008, oggi le banche centrali hanno sparato gran parte delle loro cartucce. Cosa faranno se una crisi finanziaria le cogliesse ora, che hanno già utilizzato il oro capitale ricorrendo persino all’inventiva sugli strumenti di debito da comprare per creare un po’ d’inflazione?

Gli occhi di tutti sono sulla Fed e sulla Bce, con una situazione che non si vedeva anch’essa da un quarto di secolo, il divorzio delle rispettive politiche monetarie con gli Usa che alzano i tassi e Draghi che lavora a un ulteriore quantitative easing. E le incognite sono davvero elevate, se a Davos Roubini azzarda l’ipotesi che un’istituzione come la Fed abbia sbagliato tutto a dicembre. “L’economia Usa sta rallentando, quindi la Fed potrebbe aver fatto un errore iniziando ad alzare i tassi”. Roba da far andare di traverso i sofisticati aperitivi di Davos.

(dell’inviato Domenico Conti/ANSA)