La riforma del Senato diventa legge tra le polemiche

Tabellone elettronico della Camera dei Deputati con il risultato del voto. ANSA/ GIUSEPPE LAMI
Tabellone elettronico della Camera dei Deputati con il risultato del voto finale del disegno di legge sulle Riforme Costituzionali, Roma, 12 Aprile 2016.  ANSA/ GIUSEPPE LAMI
Tabellone elettronico della Camera dei Deputati con il risultato del voto finale del disegno di legge sulle Riforme Costituzionali, Roma, 12 Aprile 2016. ANSA/ GIUSEPPE LAMI

ROMA. – Dopo due anni e quattro giorni e 173 sedute complessive il Parlamento ha approvato definitivamente, con il sì della Camera (361 sì, 7 no e 2 astenuti), la riforma costituzionale che modifica il federalismo e trasforma il Senato in una Camera delle Autonomie Locali, composta da Consiglieri regionali e sindaci.

“Una giornata storica, la politica dimostra di essere credibile e seria”, ha commentato il premier Matteo Renzi. Una riforma “sbagliata e pericolosa” ha ribattuto Silvio Berlusconi annunciando battaglia con il referendum “per difendere la Repubblica Italiana dalla voglia di potere di un premier mai eletto” e “arrogante”. Una riforma teoricamente sollecitata da molti sin dalla Costituente, ma che a Montecitorio è stata votata dalla sola maggioranza, con le opposizioni che hanno abbandonato l’Aula per delegittimare questo voto.

La parola passerà agli elettori, chiamati a pronunciarsi in un referendum confermativo che dovrebbe svolgersi a ottobre e per il quale la stessa maggioranza ha annunciato di voler raccogliere le firme. Il clima di fortissima contrapposizione del voto contrasta con quello dell’8 aprile di due anni fa, quando il governo presentò in Senato il ddl Renzi-Boschi, che aveva l’ombrello del Patto del Nazareno con Fi.

Anzi il testo originale del governo è stato profondamente modificato a Palazzo Madama in prima lettura per accogliere le richieste di Fi (composizione del Senato) e Lega (limitazione della clausola di supremazia e competenze delle Regioni).

Un clima andatosi via via smarrendo per arrivare prima allo scontro frontale con il Carroccio, che si è unito a M5s e Sel, e poi alla rottura con Fi dopo l’elezione del presidente Mattarella nel gennaio 2015. Prima di abbandonare l’aula al momento del voto finale, le opposizioni sono state durissime, a partire dall’ex partner nelle riforme, cioè Fi, il cui capogruppo Renato Brunetta ha parlato del voto come di un “atto eversivo”.

Altrettanto duri sono stati Danilo Toninelli di M5s, Alfredo D’Attorre di SI, Cristian Invernizzi della Lega e Rocco Palese dei Conservatori. Uno scontro che ha riguardato solo in parte i contenuti della riforma bensì piuttosto l’atteggiamento assertivo del premier Matteo Renzi, confermato nel suo intervento in Aula quando ha affermato che si “giocherà tutto” con il referendum.

Ma proprio questo è un altro motivo di scontro visto che le opposizioni hanno sottolineato che esso è uno strumento di garanzia per chi in Parlamento si è opposto alle riforme e non una clava in mano alla maggioranza. Anche la minoranza del Pd, in un documento firmato da Gianni Cuperlo, Roberto Speranza e Sergio Del Giudice, ha chiesto al premier di non trasformare questo appuntamento in un “plebiscito” sulla sua persona o sul governo.

La minoranza Dem ha auspicato di riaprire il dialogo istituzionale con le opposizioni, soprattutto con Si, mettendo mano ad una modifica dell’Italicum, con l’attribuzione del premio di maggioranza alla coalizione e non al partito vincente. Per altro questo appello era stato fatto in aula da Barbara Pollastrini ma era stato sprezzantemente liquidato (“sono solo sospiri”) da Alfredo D’Attorre, il quale ha annunciato l’impegno per il “no” al referendum in chiave anti Renzi, così come gli atri esponenti dell’opposizione: “i cittadini manderanno a casa Renzi”, ha detto Brunetta.

Quindi il plebiscito sul premier che si vorrebbe allontanare in teoria viene invece evocato. “Le ragioni del ‘no’ – ha detto Renzi – non sono spiegabili. Il no si spiega solo con l’odio nei miei confronti”. Insomma è facile prevedere una campagna referendaria in cui i contenuti della riforma rischiano di scomparire.

(di Giovanni Innamorati/Ansa)

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