Il sangue degli USA ed il provincialismo in salsa italo-venezuelana

luca

Immagino abbiate letto ed ascoltato di tutto su Omar Mateen, il giovane statunitense di origini afgane che nella notte tra sabato e domenica ha scatenato il panico nel Pulse, un night club di Orlando assai noto nella comunità LGTB (lesbiche, gay, bisessuali e transgender).

Terrore e odio che sono costati la vita di 49 persone, mentre altre 53 sono rimaste ferite. Lo stesso Omar è morto per mano degli agenti che sono intervenuti sul posto.

Un bollettino di guerra, l’ennesimo, per un’America che torna a sanguinare.

Di lì, 48 ore folli per noi giornalisti. C’è chi già in nottata è volato in Florida per raccontare la tragedia e chi invece, come me, è rimasto incollato al computer tra siti di agenzie ed immagini agghiaccianti.

E poi ci sono tutti gli altri, ci siete voi, i cittadini di questo mondo preda di una deriva caotica e pericolosa. Un mondo però che, nonostante tutto, nonostante tanto dolore, ad arrendersi proprio non ci sta.

E così, seppur con qualche contraddizione di chi fino alla settimana scorsa puntava il dito da “buon” moralista contro la comunità gay, ecco emergere prepotentemente da ogni angolo del pianeta una solidarietà che ha il potere di far rinascere la speranza.

Cascate di fiori, fiaccolate silenziose, bandiere arcobaleno e, soprattutto, amore.

Un amore mai condizionato dal credo religioso, dagli orientamenti sessuali, dalle origini di ciascuno. Un amore che sa di libertà, di cambiamento, di futuro.

Ovviamente, però, non è tutto qui. Perché dall’altra parte c’è l’odio. E non soltanto quello di Isis o dell’attentatore di turno.

Ci sono le parole di chi infiamma una campagna elettorale che si preannuncia da “coltello tra i denti”, agguerrita e pericolosa. Quasi destabilizzante per quel fair play cui ci ha abituati il presidente Obama in questi 8 anni. Odio che riscuote, ahinoi, un certo successo in un’America provata, forse effettivamente indebolita. Un Paese che rischia davvero di finire nelle mani sbagliate. Mani xenofobe, razziste. Mani di un americano che questa America non la rappresenta affatto. Non nei suoi valori più belli, non in quel mix tipico e meraviglioso di integrazione e sogno. No, no e no.

Eppure, evidentemente, un problema di fondo c’è. E non è il dossier religioso, che tuttavia non si può escludere nella sua interezza dalle riflessioni sui fatti di Orlando e non solo (esiste, deve esistere, una via di mezzo tra “è tutta colpa dell’Islam” e la censura, perché di vera e propria censura si tratta oramai). E non è nemmeno la tutela, presunta scarsa, delle comunità con orientamenti sessuali diversi da quelli tradizionali che tuttavia meriterebbero più rispetto e più qualità in quanto a diritti e non solo. Il problema, gigantesco e apparentemente insormontabile, di questo Paese sono le armi e la loro folle diffusione. E la semplicità con cui è possibile reperirne. Di ogni sorta, di ogni genere. Mettere insieme un arsenale da guerra qui States è più facile che bere una birra in un pub se non hai varcato la soglia dei 21 anni. Follia, ripeto.

E qui, al di là delle speculazioni cui ci ha abituati Trump, molte delle quali davvero prive di fondamento, ci si imbatte in quella che è la vera nota dolente dell’amministrazione Obama: il presidente, infatti, per quanto ci abbia provato contro un Congresso a maggioranza repubblicana, non è riuscito in buona sostanza a fare nulla su questo fronte. Le armi ci sono e continueranno ad esserci. Troppi interessi economici in gioco, troppa cultura della “difesa fai da te”, nonostante la presenza di corpi di polizia e sicurezza tra i più preparati (e più rigidi aggiungerei) del mondo.

Altro che riforma sanitaria. Le armi sono la vera sconfitta con cui Obama si congeda dal grande pubblico.

Chiudo, un po’ a sorpresa, con una “tiratina d’orecchie”.

Cari amici italiani e venezuelani, se volete utilizzare la strage di Orlando per tirarvi un po’ sù di morale con ricette tipo “eh, ma vedi che alla fine i problemi ci sono ovunque” o “meno male che sono rimasto a casa mia con mammà” o peggio ancora “gli americani sono tutti pazzi”, che dire, accomodatevi pure.

Ricordatevi però che gli Stati Uniti, seppur con tutti i loro difetti (fisiologici in una società di 320 milioni di persone) restano la più grande democrazia del mondo.

Sin dai tempi del liceo, guardare al “primo della classe” non è mai stato facile. Per cui continuiamo a crogiolarci nel nostro sonno fatto di criminalità (organizzata e non), lavoro che latita, flussi migratori e conflitti.

Provincialismo in salsa italiana o venezuelana, ce n’è per tutti i gusti.

Che la globalizzazione è una cosa brutta assai.

 

Luca Marfé

Twitter: @marfeluca – Instagram: @lucamarfe

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