Gove garante della Brexit. Fuori pure dal mercato unico

Justice Secretary Michael Gove attends a Vote Leave rally in London, Britain, 19 June 2016. Britons will vote to either stay or leave the European Union on 23 June. EPA/STR UK/IRELAND OUT
Justice Secretary Michael Gove attends a Vote Leave rally in London, Britain, 19 June 2016. Britons will vote to either stay or leave the European Union on 23 June.  EPA/STR UK/IRELAND OUT
Justice Secretary Michael Gove attends a Vote Leave rally in London, Britain, 19 June 2016. Britons will vote to either stay or leave the European Union on 23 June. EPA/STR UK/IRELAND OUT

LONDRA. – La Brexit sono io. Michael Gove non ha il ‘phiyique du role’ da leader e lo sa. Ma, dopo aver scaricato nottetempo il compagno di cordata referendaria Boris Johnson, togliendogli il sostegno dell’apparato e costringendolo a farsi da parte, ci prova in prima persona.

A Londra è il suo giorno: il Guardasigilli con l’aria da professorino, manierato quanto velenoso nel regolare i conti politici, lancia la sua sfida per la successione a David Cameron (altro vecchio amico lasciato per strada) alla guida dei Conservatori e del governo britannico.

Spiega di voler prendere tempo con l’Ue, ma solo per arrivare a un divorzio irrevocabile, “fuori anche dal mercato unico” e con la “fine della libertà di circolazione” delle persone. Per dar vita a una Gran Bretagna con meno immigrati, ma con un capitalismo meno ingiusto e “più inclusivo”.

Un programma di “cambiamento”, dice. Con il quale cerca di rimontare i favori del pronostico in una corsa che vede tuttora in pole la collega titolare dell’Interno, Theresa May. Più unitaria e in grado, stando al Times, di recuperare finanche al suo fianco l’escluso Boris Johnson. Tentato di appoggiare lei per vendicarsi del “tradimento” subito, fidando di vedersi poi restituito il favore alle elezioni del 2020: tenuto conto che ormai il voto anticipato è escluso un po’ da tutti.

Euroscettica storica al pari di Gove, la May, che come lui ha promesso che “Brexit significa Brexit” e che l’esito del referendum del 23 giugno sarà onorato con l’addio all’Ue, senza ripensamenti né rivincite elettorali. Ma che – è qui sta la differenza fra i due – nella campagna referendaria di questi mesi si è schierata, per lealtà verso Cameron, nel campo di Remain. Taciturna, quasi disinteressata al risultato, ma pur sempre – ufficialmente – per il sì all’Europa.

Lui, Michael Gove, 48 anni, ex giornalista, è invece stato in prima linea a reggere la bandiera del fronte Leave, fra slogan, polemiche, forse qualche bugia. E per questo ritiene di avere oggi il diritto alla sua chance. Di essere l’uomo giusto, il più fermo e coerente, per garantire il migliore sganciamento possibile dal Club dei 28 in nome degli interessi nazionali del suo Paese. E poi la transizione verso la strada nuova indicata dal voto referendario. Addirittura “una nuova democrazia”.

Dalle colonne del filo-conservatore Daily Telegraph, l’ex premier laburista Tony Blair, impopolare ma influente sui media, mette in guardia sulla necessità di affidare a “uno statista serio” e sperimentato i negoziati con Bruxelles: negoziati che sia May, sia Gove dicono di voler posporre per ragioni tattiche di diversi mesi, in barba alle sollecitazioni europee, rinviando di fatto l’attivazione formale dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona al 2017.

“Il Regno Unito è in pericolo”, è l’allarme accorato di Blair, che per qualcuno nasconde un’autocandidatura. Illusoria, tuttavia, se si pensa alla ‘sentenza’ della commissione d’inchiesta Chilcot che pende sul suo capo per gli inganni della guerra in Iraq. E soprattutto al fatto che anche la ‘moderata’ May ha detto senza margini d’equivoco che il suo zar per la Brexit, un “segretario di Stato” ad hoc, sarà scelto fra i Tories. Anzi, fra i leader della piattaforma Leave.

Un ruolo che sulla carta non basta a Gove, convinto di poter contendere a questo punto a Theresa il montepremi più alto: le chiavi del portoncino numero 10 di Downing Street. A spingerlo nell’arena, e alla pugnalata a Johnson, sarebbe stata – secondo talune ricostruzioni – l’ambiziosa consorte Sarah Vine. Lui, comunque, sostiene d’essersi fatto avanti “con riluttanza”, dopo averlo escluso esplicitamente per mesi.

E solo avendo capito in extremis che “Boris, con tutte le sue qualità, non era adatto al ruolo di leader”. Di più: giura d’aver fatto “quasi tutto ciò che era possibile” per non candidarsi, conscio dei suoi “limiti”. “Qualunque cosa sia il carisma, non ce l’ho. E certo non ho glamour”, ha ammesso senza che alcuno abbia mai azzardato il contrario. Ma “ho delle convinzioni”, ha rivendicato, ostili da sempre all’Europa comunitaria.

Fra le promesse, quella di riversare 100 milioni di sterline alla settimana per il sistema sanitario nazionale (Nhs) e di mettere in riga le grandi aziende che “si sono accaparrate fin troppo i vantaggi degli accordi di libero scambio” o certi top manager i cui bonus “discreditano il libero mercato”.

Gove si proclama del resto “ottimista”: l’economia britannica è “solida nei fondamentali” e pronta alla transizione, insiste. Intanto, però, l’effetto Brexit pesa. Il mercato immobiliare cala. E il vagheggiato surplus di bilancio del 2020 – fa due conti il cancelliere dello Scacchiere, George Osborne – va rinviato ancora. A data da destinarsi.

(Alessandro Logroscino/Ansa)