Paulownia tomentosa

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L’articolo che segue era destinato – come gli altri d’altronde – alla mia rubrica personale di storie minime: aforismi, riflessioni, memorie. Nello stesso tempo però esso può ben essere considerato come proposta dal contenuto culturale; o come esercizio di pratica consapevole di lingua parlata. Per l’occasione, scritta.

“Dovete sapere … . (Ma per non farvela lunga, abbrevio).

Prima di trasferirmi in Alto Adige, paesaggio di montagne e regione ricca di varia vegetazione, quando ancora abitavo a Roma, ero solito portare la famiglia in vacanza dalle parti del Lago Maggiore; per l’esattezza nella Valle Strona, tra il Lago d’Orta e il Lago Maggiore (più esattamente, il piccolo Lago di Mergozzo), all’epoca in provincia di Novara, in una cittadina a mezza costa del monte Cerano, a Casale Corte Cerro. Proprio di fronte al Mottarone. Ed eravamo ospitati al Getsemani, una casa di spiritualità, che, nei periodi liberi da impegni comunitari, accoglieva singoli ospiti e gruppi di famiglia.

Nonostante la tenera età dei miei figli, con Patrizia mia moglie, accompagnati talvolta dal personale della Casa, riuscimmo a vedere – non dico visitare – Arona, Stresa, Intra, Pallanza, Verbania; poi Domodossola; e, nella Val Vigezzo (Centovalli), Druogno, Re, S.Maria Maggiore; Verdasio, Ascona e, finalmente, Locarno, nella Svizzera italiana. Ad ovest di Casale Corte Cerro, anche Crusinallo, Omegna e Orta.

Per me, che fino a quel momento ero ancora convinto che la vacanza fosse un lusso, essa da allora divenne una necessità, specialmente dopo la nascita in circa tre anni di numero tre figli.

L’ultima volta che abbiamo soggiornato a Casale Corte Cerro fu a luglio del 1979. l’anno successivo alla pubblicazione del romanzo-racconto di Gianni Rodari: “C’era due volte il barone Lamberto, ovvero i misteri dell’isola di San Giulio” (Torino 1978).

Di G. Rodari, i bambini, ancora in tenera età avevano cominciato a ricevere in dono alcuni libri, da parte del loro zio e di altri amici intellettuali; e pertanto già ne avevano ascoltato – dalla voce della mamma – i racconti e le poesie. Quell’anno, con l’uscita del “Barone Lamberto”, sentirono anche la lettura di alcune sue pagine (lo dico adesso: molto interessante l’incipit), e alla loro età erano in grado di percepirne la verve, lo spirito, e qualche scherzo linguistico.

Inoltre, sempre attraverso la lettura che gliene faceva la mamma, avevano già imparato a conoscere alcune delle “filastrocche in cielo e in terra” o delle “favole al telefono” (due delle preziose pubblicazioni del citato autore), o dei ricercati e vivaci limerick, o dei dissacranti e acuti componimenti del “libro degli errori” (altra importante opera).

Sicché per la vacanza di quell’estate 1979 sembrò inevitabile, quasi un obbligo, oltre che visitare Omegna, città natale di Rodari, che già conoscevamo per averla vista negli anni precedenti, fare questa volta anche un’escursione sull’isola di San Giulio, al centro del lago d’Orta, sede di quei “misteri” di cui si narravano le meraviglie nel nuovo romanzo di Rodari. Per i “tre moschettieri”, o se volete i “tre porcellini”, fu una straordinaria avventura.

Lago d'Orta

Tra le altre stranezze che ci capitò di elencare sull’Isola (come il piccolo approdo nelle prossimità della chiesa; la brevità della passeggiata per percorrere l’intera isola; la bellissima chiesa romanica col pulpito in pietra nera locale; la foresteria della piccola comunità di suore di clausura che dava direttamente sul lago, di fronte all’imbarcadero di Orta; l’esiguità del numero di costruzioni; la stessa mancanza di persone circolanti che facevano sembrare l’isola disabitata), ci colpì la particolarità della vegetazione, ancora più strana per noi abituati alla macchia mediterranea, agli orti, ai giardini di frutta, alle estese coltivazioni della campagna romana e campana che vedevamo dal treno sulla tratta Roma-Napoli in occasione della visita alle nonne.

Notammo, in particolare, una pianta: un albero massiccio che presentava dei frutti a grappolo dalla forma di mandorle essiccate, un po’ più bruni, più gonfi, più appuntiti, e, data la stagione, più secchi delle stesse mandorle nel loro aspetto abituale. Nel raccoglierne da terra qualche esemplare ci accorgemmo che si trattava di gusci legnosi, leggermente aperti verso la punta. E per il fatto che ci fossero estranei e sconosciuti, Patrizia ed io ne deducemmo che si trattasse di una peculiare vegetazione lacustre.

La vacanza, molto interessante, riposante, ristoratrice, purtroppo sempre molto breve, finì. E così si ritornò al Sud. Abitavamo a Roma. Ma, poiché i bambini non erano ancora in età scolare, essi insieme alla mamma trascorrevano lunghi periodi a casa di mia suocera a Torre Annunziata, dove la nonna Iolanda, li accoglieva con grande gioia. Quando, a fine-settimana, dopo il lavoro rientravo da Roma anch’io, si faceva visita una mezza giornata a mia madre, la nonna Elia, a Pompei.

Quell’anno di ritorno dalla vacanza in Piemonte, sul finire della stagione estiva trovammo mia madre alle prese col un problema. I rami di un albero molto rigoglioso le occupavano il vano della finestra, impedendo alla serranda di srotolarsi. Per la verità quella non era la prima volta che vedevo mia madre costretta a potare l’estremità di quei rami che, oltre ad ostacolarle la vista, bloccavano l’uso regolare dell’infisso. La povera donna frequentemente, infatti, era costretta a strappare foglie e frasche per liberarsi dall’invadenza esterna e dall’ulteriore rischio di eventuali danni.

Osservato il suo affanno, questa volta ci accingemmo ad aiutarla, mia moglie ed io, prima per sollevarla dall’inconveniente, ma soprattutto perché, operando in due, sarebbe stato più facile strappare dal davanzale della finestra l’estremità di quei rami inopportuni: una reggendoli, l’altro tagliandoli.

Grande fu lo stupore quando ci accorgemmo che quell’albero era della stessa specie di quelli che avevamo conosciuti – o creduto di aver conosciuto – quella stessa estate nell’isola di San Giulio. Mentre adesso ci si rendeva conto che noi con quella pianta ci avevamo convissuto da almeno dieci anni, cioè da quando mia madre si era trasferita nella casa di Pompei, una decina d’anni prima.

Per quell’estate la cosa finì lì. Ma non era finita del tutto. Alla fine della stagione estiva, nuovi eventi e nuove decisioni ci portarono ad optare per un nuovo lavoro che comportò il conseguente trasferimento della residenza della famiglia da Roma in Alto Adige. Iniziava una nuova fase della nostra vita. Io avevo cambiato lavoro: la famiglia, cambiate abitudini.

Fortunatamente i bambini non avevano ancora fatto esperienza di scuola a Roma. Questo trasferimento ebbe come conseguenza la fine, per noi, del ciclo di vacanze a Casale Corte Cerro, ché, per restare più vicini alle nonne che a causa della nuova residenza sapevamo di non poter incontrare per l’intero anno, si preferì ritornare alle abitudini antiche, di trascorrere le vacanze al mare: il mare nostro di Torre Annunziata. La nonna Iolanda, come aveva sempre fatto, continuò a mantenere per noi la cabina allo stesso stabilimento balneare, la stessa che aveva sempre occupato da quando portava i suoi figli ai bagni di mare. E così dalle parti di Omegna non si ritornò più.

Ma veniamo alle nuove abitudini, alle quali dovemmo assuefarci con nostro compiacimento, in verità. I bimbi per quanto piccoli si recavano a scuola da soli. Alcuni anche in bicicletta. Tralascio gli altri vantaggi che ci capitò di apprezzare un po’ per volta. Solo voglio registrare il fatto che recandomi quotidianamente a Bolzano per motivi di lavoro, imparai a notare che tutti gli alberi dei parchi pubblici, e i filari che costeggiano le strade o gli argini dei fiumi, erano contrassegnati da una targhetta col nome volgare (italiano e tedesco) e il corrispondente nome scientifico della pianta. In quel tipo di costumanza non pensavo tanto alla correttezza amministrativa o al senso civico, ma evidenziai solo la funzione pedagogica verso i ragazzi della scuola, e più ancora verso la popolazione in genere.

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Dopo qualche mese, la stessa emozione la provai quando in visita al Museo (ex palazzo vescovile) di Bressanone, mi accorsi che un magnifico, colossale, albero secolare prosperava lungo l’antico fossato, in tutto identico sia a quelli che avevo visto nell’isola di San Giulio sia a quello del cortile dell’abitazione di mia madre a Pompei; e portava la sua brava targhetta dove, insieme alla data da cui se ne documentava la presenza in quel sito, c’era anche il nome della pianta: Paulownia Tomentosa.

* * *
Così ho conosciuto la Paulonia. Oggi quella pianta la rivedo lungo gli argini del fiume che attraversa la città, l’Isarco, e in qualche prato condominiale, in tutte le stagioni, con le sue grandissime foglie a forma di cuore, con la sua infiorescenza di campanelli azzurri, con i suoi grappoli di frutti essiccati.

Arrivato a questo punto del racconto, non mi sorprenderei se qualcuno mi chiedesse che cosa c’entri questa esperienza caratterizzata dall’attività di sensibilizzazione e di educazione promossa dai naturalisti e assecondata dalle Civiche Amministrazioni, con la proposta culturale e con la pratica della lingua. In effetti, che cosa ha a che fare questo racconto con la cultura?

Io dico che ci serve innanzitutto per capire. Nell’uno e nell’altro campo d’azione o di interessi. E mi viene in mente il racconto biblico in cui Dio, dopo aver creato il mondo universo compresa la coppia umana, chiama Adamo a dare i nomi alle cose (Genesi 1, 26 : “Dominio di Adamo sul regno animale”; 2,19-20: “Adamo assegna il nome agli animali”). Ecco, quale che sia l’esegesi che ne fanno i dotti, io credo di cogliere proprio questo fatto, cioè che l’uomo è chiamato [da Dio] a sviluppare il linguaggio e ad organizzare il pensiero servendosi delle cose create; in altre parole attraverso l’esperienza che se ne fa. Da piccoli, ci insegnavano che questo racconto rappresenta il dominio dell’uomo sul creato.

Ebbene, sono disposto ad accettare questa spiegazione, solo però nel senso che ho detto prima: “L’uomo, padrone del mondo sì; ma attraverso il linguaggio e guidato dalla ragione; partendo dall’esperienza”.

Luigi Casale

( Paulownia tomentosa: Testo e foto di Luigi Casale )

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