Viaggiare con un neonato al seguito? Possibile e meraviglioso

luca

C’è stato un tempo in cui, come chissà quanti di voi, ho girato il mondo con uno zainetto sulle spalle e nulla più.
Macchine, treni, aerei. Una spiaggia vicina, un deserto lontano. Camminate infinite, Paesi amici, continenti diversissimi da tutti gli schemi cui pensavo di essere in qualche modo abituato. Ma schemi ed abitudini, si sa, sono fatti per saltare.
E a farli saltare ci ha pensato lui. Un puntino piccolo piccolo nella prima ecografia, una lei secondo la ginecologa che visitò mia moglie al terzo mese di gravidanza, una furia di maschietto dopo 270 giorni e la faccia incredula dell’impiegato del comune di Roma di fronte alla mia dichiarazione già bella e compilata: Laerte.
Eravamo reduci (è proprio il caso di dirlo) da 4 lunghi anni trascorsi in un Venezuela in frantumi, tra criminalità e crisi economica. Ragioni professionali ci avevano portato fin laggiù e, nel caos che regnava tutt’intorno, e ad essere sinceri anche un po’ nelle nostre teste di giovani sposi, su una sola cosa sembravamo aver trovato un accordo senza che nessuno dei due avesse dovuto neanche aprire bocca: mai un figlio quaggiù. Mai in un Paese dove ad ogni angolo di strada rischi la vita per un paio di scarpe di gomma o un orologio. A me personalmente ne sono capitate di tutti i colori ed ho imparato l’arte della prudenza. Almeno nei confronti di chi sarebbe stato il mio erede.
E così, quasi al termine della nostra strampalata avventura, abbiamo portato il nostro bel pancione in patria e lo abbiamo coccolato fino a quando, una sera di rientro dall’ospedale, ci siamo resi conto di non essere più soltanto in due.
La più grande delle fortune secondo alcuni. Una sorta di follia negativa secondo altri.
La nostra società, ed i ritmi professionali (e non) che ci vengono imposti, vive i nostri pargoli quasi come un ostacolo. Per chi ama viaggiare, poi, sembra essere l’inizio di un incubo.
Ricordo come fosse adesso le reazioni dei miei amici più cari ed in qualche modo più simili a me, perlomeno fino ad allora.
«Io sto ancora pensando a quale Paese visitare il prossimo anno!»
«Adesso ti toccherà appendere il tuo bello zainetto al chiodo!»
«È finita la pacchia, amico mio. Dietro l’angolo ci sono le estati in compagnia di tua suocera.»
Potrei continuare all’infinito.
Diciamoci la verità: noi italiani non siamo poi così inclini all’idea di viaggiare già in generale, soprattutto se si tratta di lasciarsi alle spalle i nostri confini nazionali. Un’abitudine che sta esplodendo soltanto da alcuni anni a questa parte, sostenuta dalle distanze ridotte di un mondo che sembra assomigliare ogni giorno di più ad una pallina piccola piccola. Lode alle compagnie aeree low-cost e, in senso più ampio, al libero mercato, alla concorrenza e ai costi che si riducono.
Ma se pronunci la parola figlio, anche tra coloro che fanno bella mostra di sé sottolineando che sono viaggiatori e non semplici turisti, sei destinato a seminare il panico in un battito di ciglia.
Panico che, in qualche maniera, iniziava a montare anche dentro di me.
E se avessero ragione loro? Che ne sarà di tutto ciò che c’è ancora da vedere là fuori?
E invece, molto semplicemente, avevano torto.
Laerte a due mesi e mezzo ci ha seguiti a Manhattan, dove io e la mia Metà abbiamo iniziato una nuova avventura professionale. A pensarci bene, io a due mesi e mezzo forse non ero ancora uscito di casa.
La giungla verticale di acciaio e vetro lo ha avvolto ed accompagnato prima ancora che fosse in grado di muovere i suoi primi passi. E tante altre giungle, stavolta verdi ed autentiche, lo hanno ospitato in occasione dei miei reportage. Imbragato al mio petto o tra le braccia pazienti della mamma, nostro figlio era lì, con noi. E non parliamo di posti facili né tantomeno di villaggi turistici da formule all-inclusive. Parliamo di vita vera, di volti intagliati di diverso, di lingue incomprensibili o quasi.
E questa breve riflessione vuole essere la mia risposta alle tante pacche sulle spalle ricevute manco fossi stato condannato a comparire di fronte ad un plotone di esecuzione.
A tutti quelli che come me sognano di esplorare ogni angolo della propria fantasia, di poter ammirare da vicino le bellezze che questa vita e questa Terra hanno da regalarci ad ogni metro del nostro percorso, io lascio uno stringato ma potentissimo “sì, è possibile eccome”.
Con un carico pressoché infinito di creme, cremine, passeggini, salviette, pannolini (fate in modo che non vi manchino mai e poi mai perché le conseguenze possono essere davvero drammatiche) e chi più ne ha più ne metta. E non è soltanto possibile: è meraviglioso.
Per cui, scordatevi di viaggiare leggeri. Ma non scordatevi di viaggiare.
Luca Marfé
Twitter: @marfeluca – Instagram: @lucamarfe

Lascia un commento