La sfida del Primo settembre

La sfida del Primo settembre
La sfida del Primo settembre
La sfida del Primo settembre

Mauro Bafile

Ormai non si parla d’altro. Il primo settembre si è trasformato nel “leit motiv” di politici, professionisti, universitari, studenti, casalinghe e pensionati. E motivi abbondano. Il primo settembre, governo e opposizione si giocano la propria credibilità. Non possono commettere errori in quella che sarà una vera e propria manifestazione di forza.

L’opposizione deve assolutamente riuscire a organizzare una protesta oceanica, come ha promesso. D’altronde, le condizioni non mancano: i venezuelani sono stanchi delle promesse incompiute del governo, delle lunghe file sotto il sole alle porte dei panifici, dei supermarket o delle farmacie, stanchi del razionamento e degli acquisti programmati secondo il numero del documento d’identità.

Sono estenuati dalle lunghe attese per acquistare generi alimentari o medicine che alla fine della giornata restano, il più delle volte, “uccel di bosco”.

Jesús “Chuo” Torrealba ha promesso, per il primo settembre, una manifestazione “come poche volte si sono viste in Venezuela”; una “presa di Caracas” per esigere che il Consiglio Nazionale Elettorale renda nota l’agenda del Referendum. L’opposizione accusa l’organismo elettorale di “giocare sui tempi” di realizzazione della consulta popolare per neutralizzare l’obiettivo del “Tavolo dell’Unità”: nuove elezioni presidenziali. L’opposizione vuole l’azzeramento del governo attuale; il Cne, se proprio non può evitarlo, cerca di spostare il Referendum al 2017 per ottenere un cambio gattopardiano, al vertice del Paese, le cui redini passerebbero al vicepresidente.

Sono tanti gli ostacoli che il “Tavolo dell’Unità” dovrà superare per convincere i venezuelani a partecipare alla manifestazione del primo settembre. In primis, la paura.

Il governo del presidente Maduro e i simpatizzanti del Psuv, lo zoccolo duro del “chavismo”, sanno bene che il successo dell’Opposizione rappresenterebbe la loro débâcle. Sarebbero indeboliti internamente e screditati all’estero; al Cne resterebbe poco margine di manovra e anche la Corte Costituzionale, trasformatasi nella mano destra del governo, avrebbe grosse difficoltà nel continuare a vanificare l’azione del Parlamento.

Il governo ha deciso di giocare, dunque, la carta della paura. Il 18 agosto, il presidente della Repubblica, Nicolás Maduro, ha promesso mano dura nel caso che la protesta organizzata dall’opposizione si trasformasse in un movimento sovversivo per rimuoverlo con la forza. E ha assicurato che la reazione di Erdogan al “golpe” sarebbe cosa da lattanti in comparazione con quella che avverrebbe in Venezuela.

In Turchia, all’indomani del tentativo di “Putsch” sono scomparsi decine e decine di cittadini, centinaia di migliaia sono stati imprigionati e un numero altrettanto numeroso è rimasto sotto stretta sorveglianza. Una reazione solo immaginabile in un governo dittatoriale.

Dopo il fallito “Golpe” dell’estinto presidente Chávez, le istituzioni democratiche funzionarono com’era da aspettarsi: in prigione, rispettando i diritti umani, finirono i capi della rivolta ma nessuno fu perseguitato. Chi scappò all’estero lo fece perché coinvolto nel complotto.

gnb

I posti di blocco della polizia in assetto antisommossa, della Guardia Nazionale con mezzi anfibi, e dell’esercito protetti dai sacchi di terra, come in tempo di guerra, sono sempre più numerosi nelle strade di Caracas. Si ha l’impressione di un Paese in guerra ma non si capisce contro chi. La delinquenza dilagante continua a mietere vittime per nulla intimorita dalla presenza massiccia delle forze dell’Ordine che invece spaventa i cittadini onesti.

Se ciò non bastasse, alle minacce del presidente della Repubblica si somma la “caccia alle streghe” promossa dall’ex presidente del Parlamento e vicepresidente del Psuv, Diosdado Cabello. Il leader politico insiste nella tesi secondo cui nell’amministrazione pubblica e nelle aziende dello Stato non vi è posto per i simpatizzanti dell’Opposizione e ha invitato a denunciare chi non è di chiara fede “chavista”.

Nei ministeri, nell’holding petrolifera nazionale, nelle imprese dello Stato si respira un clima da inquisizione. Basta una parola, una frase mal detta o mal interpretata, una battuta e si corre il pericolo d’essere esposti al disprezzo pubblico, di essere messi alla gogna e di ricevere la lettera di licenziamento, in contrasto con le disposizioni emesse dal presidente Maduro.

Mentre Governo e opposizione si preparano ad affrontare il giorno dell’esame, l’inflazione galoppante castiga tutti i venezuelani, senza eccezione. Stando al “Cenda”, l’organismo della Federazione dei Maestri, il carrello della spesa a giugno, per una famiglia di cinque persone, è costato circa 270mila bolívares. Una cifra da capogiro giacché, anche con i nuovi aumenti, lo stipendio del venezuelano raggiunge appena i 22mila bolívares e se a esso si sommano i “cesta-ticket” (buoni che accompagnano lo stipendio pur senza gravare sul calcolo dei contributi che l’azienda deve versare) non supera i 65mila bolívares.

Stando a Econometrica, poi, il potere d’acquisto del salario minimo integrale a luglio del 2016 rappresentava un terzo di quello dello stesso mese del 2007. In altre parole, in 9 anni si è ridotto del 75 per cento.

L’erosione della qualità di vita del venezuelano spiega ampliamente il clima di insoddisfazione che si respira nel Paese.

Il governo scommette in una ripresa del prezzo del greggio per affrontare la grave crisi. Per il momento l’azione diplomatica del ministro dell’energia, Eulogio Del Pino, e della ministro degli Esteri, Delcy Rodríguez, ha ottenuto magri risultati. Il governo vorrebbe che l’Opec, nella prossima riunione, fissasse un tetto di produzione per promuovere il riequilibrio dei prezzi verso l’alto.

Per il Venezuela, che ormai produce solo 2,36 milioni di barili al giorno, una riduzione della produzione non avrebbe un’incidenza eccessiva poiché comunque non potrebbe produrre maggiori quantità a causa dell’inefficienza dell’industria e la carenza di un’appropriata manutenzione dell’infrastruttura. Servirebbe, però, ad ottenere maggiori introiti.

Sarà d’accordo il resto dei membri del cartello? Sarà disposto l’Iran a ridurre il livello di produzione nel momento in cui il suo obiettivo è riconquistare il mercato perso durante gli anni dell’embargo?

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