Mostre: al MoMA Insicurezze, architettura campi profughi

Mostre: a MoMA Insicurezze, architettura campi profughi
Mostre: a MoMA Insicurezze, architettura campi profughi
Mostre: a MoMA Insicurezze, architettura campi profughi

NEW YORK. – Dalla casetta “flatpack” Ikea che si monta e si smonta in poche ore, alle baracche di latta incandescenti sotto il sole dei campi profughi in Libano o Giordania: l'”architettura” delle migrazioni entra in museo. “Insecurities”, la prima mostra sul design degli shelter che accompagnano l’odissea moderna di oltre 65 milioni di persone ha aperto i battenti al MoMA nei giorni in cui il mondo commemora la tragedia dei morti del 3 ottobre a Lampedusa.

E’ la seconda volta in pochi mesi che uno dei museo d’arte più importanti del mondo punta i riflettori sul dramma dei profughi. “Insecurities”, il titolo è un gioco di parole sull’assenza di certezze di chi in questi alloggi ha trovato rifugio, fa seguito all’installazione “Mapping Journey Project”, una creazione dell’artista franco-marocchina Bouchra Khalili dedicata a otto “viaggi della speranza” da Africa e Medioriente verso l’Europa.

Sean Anderson, il curatore della nuova mostra, ha passato settimane tra Giordania e Libano, ma anche Italia e Sri Lanka cercando di immedesimarsi nella vita quotidiana della “Refugee Nation”, quella “nazione non nazione” di 65 milioni di persone che quest’anno per la prima volta ha gareggiato alle olimpiadi.

La mostra esamina “best practices” e esperimenti falliti, ma offre anche una riflessione sul paradosso di campi nati per essere temporanei e che invece da decenni ospitano persone in fuga come Dadaab in Kenya, con una popolazione di 300 mila uomini donne e bambini, che celebra quest’anno il ventesimo anniversario della sua esistenza.

Dadaab, Kakuma, Dollo Ado, Za’atari, e tanti altri sono “proto-citta’”, esempi sul nascere di metropoli dell’apolidia. “Insecurities” non dà risposte ne offre soluzioni alla domanda di fondo – come l’architettura può assistere nella crisi dei rifugiati – ma suggerisce che alcune proposte sono meglio delle altre: oltre al prefabbricato Ikea, 17 metri quadri ridotti all’osso realizzata in collaborazione con UNHCR e Better Shelter, le casette fatte di sacche di sabbia dell’iraniano americano Nader Khalili: possono essere assemblate a mano senza bisogno di speciali attrezzature o materiali e costruite in una frazione del tempo che occorrerebbe per un edificio tradizionale.

(di Alessandra Baldini/ANSA)

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