Elezioni Usa, Ammendola: “Chiunque sia eletto dovrà ascoltare le voci ragionevoli dei consulenti”

Prof. Amendola
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Prof. Giuseppe Ammendola

MAURO BAFILE

NEW YORK – Una campagna elettorale senz’altro atipica, dall’inizio alla fine. E per tante ragioni. Non ultime, i colpi di scena che si susseguono a “tamburo battente” tra rivelazioni a “luci rosse”, imposte non pagate e mail private. Ma cosa accadrà l’8 novembre, quando gli americani si recheranno alle urne per eleggere il successore di Barack Obama, il 44esimo presidente degli Stati Uniti? Qual è il miglior candidato e quale sarà il Paese che erediterà? La “Voce” lo ha chiesto a Giuseppe Ammendola, eminente professore della prestigiosa New York University che, da oltre tre decadi, insegna commercio internazionale, economia politica, relazioni internazionali, finanza e marketing.

Indifferentemente da chi sarà eletto – spiega alla “Voce” il docente universitario – non potrà fare tutto quello che si propone. Di questo sono assolutamente convinto. Esistono alcuni meccanismi correttivi, ad esempio il Congresso, che non lo consentiranno. Ma non lo permetteranno neanche le persone delle quali devono circondarsi. Io sono molto ottimista. Penso che comunque ci sarà sempre un consulente, una persona competente e onesta che saprà consigliare bene. Qualcuno competente ed onesto, nel sistema americano, c’è sempre. Sono convinto che chiunque sia eletto dovrà sempre ascoltare le voci ragionevoli, equilibrate, incorruttibili di chi ha un profondo senso del dovere verso il Paese.

– Donald Trump e Hillary Clinton saranno abbastanza intelligenti, di mentalità sufficientemente aperta da non farsi sedurre dai “canti delle sirene”? Sapranno evitare la tentazione di collocare amici o, comunque, adulatori nei posti chiave? Avranno lo stesso coraggio mostrato dal presidente Obama che ha saputo dimenticare acredini e malintesi inevitabili in una campagna elettorale aspra e combattuta e affidare alla sua acerrima avversaria nelle primarie alla “nomination” dei democratici il ruolo chiave di Segretario di Stato?

Molto difficile a dirsi – ammette – lo è perché le cariche trasformano l’individuo. In realtà, quando o Clinton o Trump sarà eletto presidente, diventerà un’altra persona. In ogni presidente vi è il desiderio di lasciare una traccia, un’impronta che permetta un ricordo favorevole della propria gestione. Insomma, di entrare nella storia. Questo ovviamente vale per entrambi, sia per Clinton sia per Trump.

– Qual è il Paese che erediteranno dal presidente Barack Obama? La crisi economica pare ormai superata. Le statistiche mostrano un Paese che si avvia definitivamente verso la ripresa con un incremento timido ma progressivo dell’occupazione. A suo avviso, quali saranno le sfide del futuro?

Docente universitario e insegnante nei corsi di post-laurea dell’università di New York, una delle più prestigiose della “Grande Mela”, il professor Ammendola sostiene immediatamente che “i problemi nel breve periodo non possono dissociarsi dalle difficoltà nel lungo termine”. Spiega che l’economia, e i suoi problemi, sono interpretati in modo diverso.

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Innanzitutto – ci tiene a precisare – stiamo assistendo ad una competizione politica che ha come protagonisti un uomo d’affari, da un lato, e una politica “doc”, dall’altro. Non credo che ci sia una persona che possa ricordare un’elezione in cui i candidati siano stati così diversi l’uno dall’altro, che provengano da mondi tanto differenti. Io non lo ricordo. C’è una politica di professione, moglie di un ex presidente, ex senatrice ed ex Segretario di Stato; una persona, quindi, che ha vissuto tutta la sua vita in politica. Di contro – prosegue – vi è un uomo d’affari con un’esperienza internazionale. Trump è un New Yorker e chi ha vissuto a New York, secondo me, è un internazionalista di per sé. Inoltre, è un uomo che non ha mai avuto un incarico pubblico. Queste sono le sue prime elezioni. Siamo al cospetto di due candidati assai diversi con punti di vista molto distanti e programmi politici ed economici assai differenti.

– Sono persone con un background culturale molto diverso. Ma non è questa la sola differenza. Ad esempio, dopo l’elezione del presidente afroamericano, assistiamo alla candidatura di una donna alla corsa alla Casa Bianca; una candidatura, tra l’altro, con grosse possibilità di trionfo. E’ una donna, la Clinton, che Obama, nonostante sia stata sua avversaria nelle primarie interne che lo hanno visto vincitore, ha voluto accanto chiedendole di accettare un incarico chiave per la sua amministrazione: quello di Segretario di Stato.

Ammendola spiega che “questa è una caratteristica della politica americana”.

Guarda quanto è avvenuto con Cruz – commenta -. E’ stato avversario acerrimo di Trump nelle primarie repubblicane ma anche lui, arrivato il momento, ha archiviato ostilità e risentimenti. E’ una consuetudine molto americana. In questo ambito, il presidente Obama ha svolto una politica sagace ma anche molto normale. Negli Stati Uniti lo fanno tutti. E’ logico, quindi, che Obama abbia voluto Hillary Clinton come collaboratrice. Tra Obama e Clinton esisteva la stessa tensione che abbiamo visto tra Clinton e Sanders. Eppure quest’ultimo, negli ultimi mesi, ha fatto campagna per la sua ex avversaria. Non si sa se riuscendo a convincere tutti i suoi simpatizzanti.

– Sanders ha interpretato, in seno ai democratici, il ruolo di candidato progressista per eccellenza, ha dato voce ai giovani e si è espresso in termini tali che molti lo hanno chiamato “socialista”. Era sostenuto soprattutto dall’intellettualità giovane, progressista e contestatrice…

Giovane e contestatrice … – asserisce -. A questo proposito, c’è da mettere in risalto un aspetto a mio giudizio interessante. Si nota una certa sovrapposizione tra i simpatizzanti di Trump e quelli di Sanders.

Sostiene che il magnate del mattone “è stato molto abile nell’individuare alcuni temi assai controversi e importanti”.

Il primo – spiega – la inaccettabile continua negatività dei bilanci dei conti correnti esteri. Ha detto chiaramente che il commercio estero ha danneggiato il Paese. Trump afferma che la bilancia dei pagamenti è in rosso. E si chiede come sia possibile. Attribuisce la colpa alla deindustrializzazione che, a suo avviso, ha giovato alla Cina. È convinto che si siano persi tanti posti di lavoro.

Si passa in apparenza, ma solo in apparenza, di “palo in frasca”. Il discorso di Ammendola non è caotico. Al contrario, sotto una patina di apparente disordine, si nascondono lucidità e coerenza. Soprattutto, chiarezza. Professore in cattedra, balza da un argomento all’altro, tutti assai interessanti, per riallacciarsi direttamente o indirettamente al filo conduttore che non abbandona mai: le elezioni del prossimo 8 novembre e la realtà economica, politica e sociale che erediterà il prossimo presidente. L’intervistato ci aiuta, come fa con i suoi alunni, a capire la realtà americana, a inoltrarci nel suo labirinto senza perderci, a interpretare quei fenomeni che a volte appaiono ermetici e incomprensibili.

– La Cina – facciamo notare – possiede in gran misura il debito americano. Ciò rende il paese debole e, in un certo qual modo, ricattabile.

Sorride. Poi, commenta:

Sì e no.

E’ un argomento ostico per noi ma non certo per lo studioso dei fenomeni economici. Il debito americano, gli equilibri internazionali, le relazioni Cina-Stati Uniti sono solitamente temi di discussione nei salotti intellettuali in cui il linguaggio sgarbato di Trump e quello più vellutato di Clinton si scontrano con la logica dell’economia intesa come scienza sociale.

Rappresenta un’arma a doppio taglio – commenta – Se i cinesi sono detentori del debito americano, ed effettivamente è così, potrebbero ad un certo punto cercare di mettere in difficoltà gli Stati Uniti. Il deficit potrebbe diventare più difficile da sostenere, da gestire. E’ probabile, allora, che i tassi d’interesse subiscano un’impennata. Per il Paese si complicherebbe tutto. Ma vediamo il rovescio della medaglia…

Si chiede:

Che cosa accadrebbe se la Cina improvvisamente decidesse di vendere le obbligazioni americane? Che cosa succederebbe al loro prezzo?

Una pausa, poi si risponde:

Scenderebbe… E’ quindi un’arma che la Cina non può impiegare facilmente. Se dovesse decidere di vendere i Buoni del Tesoro per punire l’America ed essere più aggressivi verso gli Stati Uniti, ne sarebbe a sua volta punita. Provocherebbe un crollo dei suoi investimenti. E’ questa la questione di fondo.

Torna sul candidato repubblicano, con un argomento che, pare, gli stia particolarmente a cuore.

Trump – reitera Ammendola – è stato molto intelligente nell’individuare anche un gruppo di elettori che più di altri ha sofferto per la perdita di posti di lavoro a causa della deindustrializzazione. Costituito da uomini, bianchi, senza laurea, senza una professione universitaria, questo gruppo demografico rappresenta un bagaglio di voti: Trump vi si è lanciato con successo.

Sostiene che Sanders ha fatto lo stesso, “ma offrendo logicamente soluzioni più di sinistra”.

Andando più sul terreno tecnico – spiega – noi economisti abbiamo insegnato per anni i valori del libero commercio, del “free trade”. Questo ha ovviamente degli enormi vantaggi e tutti i Paesi ne hanno beneficiato. Ma, c’è da dire – precisa l’intervistato -, che alcune comunità ne sono condizionate negativamente. Se un gruppo di operai lavorasse in una azienda manifatturiera che chiude perché è più redditizio produrre all’estero, magari in Cina, si sentirebbe tradito. In tutto questo c’è una straordinaria contraddizione…

– Ma Trump, in qualche modo, ha fatto lo stesso: ha costruito grandi edifici all’estero invece di farlo negli Stati Uniti.

Ma lui sostiene – insiste l’economista– che una cosa è costruire all’estero, usando mano d’opera locale, ed un’altra assai diversa produrre all’estero. Nel primo caso, non vi è esportazione di lavoro. Nel secondo, invece, sì. Trump – afferma Ammendola – non ne è colpevole. Questo è il suo grande vantaggio. Se fosse stato un imprenditore che produceva all’estero ed esportava molto verso gli Stati Uniti, non avrebbe potuto dire nulla.

Sottolinea che anche sul fronte del terrorismo e sull’immigrazione si esprime in maniera chiara, ricevendo il sostegno e “le simpatie degli agenti d’immigrazione, del personale che lavora al confine col Messico”.

– Certamente si è espresso in maniera assai pesante, offensiva, con disprezzo nei confronti degli immigranti latinoamericani…

Trump – ci dice – sostiene che non possiamo far venire tutti, non possiamo permettere l’ingresso di persone che poi non possiamo controllare. Ma non dice, ad esempio, che nessun islamico dovrebbe entrare nel Paese. Non potrebbe dirlo. Afferma che ci devono essere controlli seri sull’immigrazione.

– Comunque ha avuto espressioni pesanti, molto pesanti nel caso dei latinoamericani e dei musulmani. Ha detto, ad esempio, che chi professa la religione musulmana non dovrebbe stare in America…

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No – ci corregge -, non è questo quel che Trump sostiene. Il candidato repubblicano fa un discorso di percentuali. Se dicesse che tutti gli islamici sono terroristi, nessuno lo voterebbe. Sarebbe razzismo. Trump, invece, afferma che le percentuali di individui distanti dalla religione cristiana-giudaica sono elevate. E’ questa la sua posizione.

– Una posizione che comunque contraddice la forza intrinseca degli Stati Uniti. Questa è una nazione che è nata con l’immigrazione, si è fatta grande con l’immigrazione, e la cui economia, oggi, si muove grazie all’immigrazione.

Affrontiamo l’argomento in termini strategici – afferma -. I consulenti della signora Clinton consigliano di trattare Trump come uno xenofobo e sostenere che non vuole gli stranieri. I consulenti di Trump, invece, suggeriscono al loro candidato di affermare che Clinton ha torto poiché la prudenza indica che il monitoraggio di certe persone è assai difficile. L’argomento impiegato è che gli immigrati italiani, russi, polacchi erano facilmente integrabili. Non così i musulmani.

– Nel caso del terrorismo, abbiamo potuto notare che molti sono cittadini reclutati in loco; cittadini francesi, in Francia, e americani, negli Stati Uniti. Sono giovani di seconda generazione che si sentono esclusi.

Ecco perché è un argomento complesso e delicato – commenta -. C’è poi l’effetto dei social media. I giovani sono reclutati attraverso la rete. Trump, con il suo discorso, ha fatto leva sui sentimenti anti-immigranti di alcuni settori. Non direi xenofobi, perché Trump potrebbe dire: “Ho una moglie nata all’estero”. Questo è il dibattito. C’è poi un terzo argomento che metterei in risalto. Trump si presenta come il candidato che vuole combattere il crimine. Sono queste tre dimensioni che hanno reso accettabile il candidato repubblicano. Bisogna riconoscere che Trump è riuscito a individuare argomenti sensibili che interessano una percentuale alta della popolazione. Comunque, a mio avviso, il suo maggior vantaggio è quello di non essere mai stato un politico. Raccoglie, così, il voto di protesta contro lo “status quo”, contro i politici di professione.

L’intervista si svolge in un piccolo ristorante esotico, tra rumore di piatti e l’animata conversazione dei camerieri orientali dalla lingua incomprensibile. E’ una giornata grigia, umida, uggiosa. Anche così, le strade di Astoria, il quartiere commerciale e di classe media, sono frequentate da uomini e donne dalle attività frenetiche. Solo i turisti, che si riconoscono subito, camminano placidamente sotto la pioggia autunnale. E’ una acquerugiola insistente, nulla a che vedere con l’irruenza degli acquazzoni tropicali.

Torniamo a parlare di economia. In particolare, dei problemi che gli States hanno lasciato alle spalle ma che restano sempre in agguato. Gli Stati Uniti hanno superato la crisi più grossa dal 1929, quella che con cristallina semplicità descrisse John Kenneth Galbraith nel libro “The Great Crash, 1929” pubblicato nel 1955.

Ci sono due maniere per analizzare come si è riusciti a superare la crisi – afferma – La prima è riconoscere il successo dell’amministrazione Obama. Di contro, però, si potrebbe affermare che la recessione è stata superata aumentando il debito. Insomma, ha risolto le difficoltà spendendo molti soldi.

– Applicando la politica di taglio keynesiano che consiglia investimenti dello Stato per dare ossigeno all’industria privata e, quindi, promuovere l’occupazione e la crescita.

– commenta -. Ma c’è chi afferma, criticando la maggioranza degli economisti, che non si è stati capaci di prevedere la crisi. C’è quindi un riesame profondo della teoria economica. Verranno introdotti nuovi concetti inerenti al comportamento economico. Ma è un processo di analisi ancora in corso… Comunque sia – aggiunge – non c’è dubbio che siano stati applicati principi keynesiani. E, in un certo qual senso, sono stati applicati abbastanza bene.

Si sofferma ora sulla politica dei tassi zero per spiegare che esistono due scuole di pensiero. La prima sostiene che “è necessario mantenere i tassi inalterati, almeno fino a quando la situazione attuale sussista”. L’altra, in cambio, suggerisce “d’innalzare i tassi d’interesse perché, al mantenerli artificialmente bassi, si corre il rischio che tutta la struttura dei prezzi sia artificializzata”.

In altre parole – prosegue – non esisterebbe più una dinamica naturale dei prezzi. C’è chi, come Mario Draghi, sostiene con ragione che le banche centrali non possono fare tutto. Ci deve essere spazio per la politica fiscale. E, in questo senso, i responsabili della politica europea pongono come esempio gli Stati Uniti. Affermano che l’America è riuscita a superare la crisi perché aveva una politica fiscale unica. In Europa è chiaramente impossibile applicare una tale strategia perché vi sono paesi diversi. E poi, ora con il Brexit…

– Un vero governo europeo, il sogno di un federalismo in Europa si allontana sempre più.

Annuisce con un movimento della testa e racconta che, attorno agli anni ’90, in occasione di una conferenza internazionale in una cittadina sul Lago di Como, alla quale ebbe occasione di partecipare, si chiese come “fosse possibile una moneta unica in mancanza di una politica fiscale comune”.

Negli Stati Uniti – sottolinea – è un continuo comunicare tra Casa Bianca, Federal Reserve e Congresso. Le istituzioni parlano costantemente tra loro. C’è poi da dire che esistono molti filtri, molti blocchi… la possibilità di veto. In un articolo che scrissi per una rivista, identificavo tre tematiche che vanno affrontate per capire la globalizzazione: crescita economica, disuguaglianza e un insieme di teorie economiche orientate allo sviluppo dei paesi emergenti che oramai rappresentano oltre la metà dell’economia mondiale.

Quindi sostiene che uno dei “grandi problemi degli Stati Uniti è la crescita, anche se avvenuta meglio che in altri paesi industrializzati”.

Una cosa è l’abbassamento della disoccupazione e un’altra è il tasso di partecipazione – commenta immediatamente per poi precisare:
Sono cose diverse. Il tasso di partecipazione è dato dalla quantità di individui attivi nella popolazione che, però, è diminuito. E’ questo, se si vuole, il grande problema dell’Italia che ha una “level participation” assai bassa. Non si tratta solo di disoccupazione, ma di popolazione attiva. Quindi c’è il discorso della disuguaglianza e della deindustrializzazione. Non è facile avere crescita economica se vi è disuguaglianza. E qua, Trump ancora una volta ha indovinato. Ha identificato il problema reale. Io, se fossi al posto della Clinton, direi che la colpa è della crescita della robotica, applicata all’industria.

– I disoccupati, quindi, sarebbero i semplici operai; la mano d’opera non specializzata che resta fuori dal mercato del lavoro sempre più esigente e alla ricerca di operai qualificati.
– Sì – ammette -. La robotica implica la riduzione della mano d’opera. Se si esaminano le società avanzate, questo non è solo un problema americano, si osserva un’evoluzione, una trasformazione. Le grandi multinazionali ad alta tecnologia, come ad esempio Apple o Microsoft, hanno un numero di impiegati molto minore di quello della Ford o della General Motors un quarto di secolo fa.

Prof. Amendola
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– La modernità, comunque, non si può ostacolare. Bisogna avere la capacità di adattarsi ad essa.

– E’ vero – concorda -. Resta comunque il problema di chi rimane indietro. Bisogna trovare sistemi che permettano di recuperare questa mano d’opera. Questa è oggi la grande sfida. E non solo degli Stati Uniti.

Il professor Ammendola parla lentamente osservando spesso lunghe pause, forse come farebbe nelle aule universitarie durante le ore di lezione per permettere agli alunni di digerire lentamente l’enorme volume di nozioni. E’ Consigliere della “Italy America Chamber of Commerce” di New York, consulente manageriale e autore di numerose pubblicazioni tra cui “From Creditor to Debtor: The U.S. Pursuit of Foreign Capital – The Case of the Repeal of the Withholding Tax” (Foreign Economic Policy of the United States – Outstanding Studies – New York: Garland, 1994), “Western European Government and Politics” (New York: Addison Wesley Longman, 1st edition 1997 and 2nd edition 2003) “The European Union: Multidisciplinary Views” (Stony Brook, NY: Forum Italicum, 2008).

– Abbiamo letto in libri, riviste ed articoli, ed anche lei lo ha confermato, che la crescita degli Stati Uniti è ancora molto lenta, incerta. Lei cosa consiglierebbe ai candidati?

Credo molto nella via di mezzo – ci dice -. Credo nella cooperazione internazionale. Ciò vuol dire essere duri con gli altri ma anche coinvolgerli nelle discussioni e nelle iniziative. Ritengo che non ci sia stata una grossa cooperazione tra le nazioni da quando è scoppiata la crisi, la recessione del 2008. La cooperazione poi, passato il momento più difficile, è diminuita ulteriormente.

E’ convinto che “oggi i problemi siano di carattere globale”. Sostiene che non si può parlare solo di crescita ma è necessario anche “pensare agli effetti negativi di questa crescita”. Ad esempio, alla distribuzione e all’ambiente.

Ci dovrà essere qualcuno – ci dice – che spieghi ai critici degli Stati Uniti che il paese ha fatto da “consumatore di ultima spiaggia”, da “importatore di “ultima spiaggia”.

Sostiene che anche la Clinton ha criticato il partenariato Trans-Pacifico che da Segretaria di Stato aveva sostenuto.

Non credo – precisa – che quegli accordi siano cattivi. Ma non è possibile per un Paese avere sistematicamente la bilancia del conto corrente in rosso. E’ una realtà che va affrontata e risolta. Gli Stati uniti devono esportare di più. Questo sarà il dibattito. Si deve entrare in una fase di globalità. Ad esempio, avere tassi di cambi globali coordinati. La risposta ai problemi della globalità solo può essere globale. Ci deve essere una grossa cooperazione.

L’intervista con il professor Ammendola, che ha ottenuto col massimo dei voti il Dottorato in Economia e Commercio nell’Università di Napoli e Ph.D in Scienze Politiche ed Economia Politica Internazionale nella “City University di New york,” si trasforma in un’interessante dialogo in cui si passano a rassegna tanti temi. Pare che il tempo non trascorra. La conversazione iniziata alle prime ore del pomeriggio si prolunga in maniera inattesa. Ci accorgiamo del tempo trascorso perché con l’arrivo della sera il piccolo ristorante comincia a prender vita, a uscire dal torpore, a riempirsi di clienti, soprattutto giovani spensierati.

– Secondo lei – chiediamo – qual è il miglior candidato?

– Torno ad insistere – ci dice – non credo sia un problema di candidati ma, piuttosto, delle persone che avranno a fianco. Viviamo momenti di una complessità enorme. Ad esempio, la questione del Medio Oriente. Esiste un numero notevole di correnti, di sfumature religiose che solo pochissime persone conoscono realmente. Sono problemi così complicati che una politica navigata come Clinton o un uomo intelligente che sa imparare come Trump non possono risolvere da soli. La chiave non sono loro ma lo staff che avranno accanto.

E’ convinto che “le sfide cha hanno davanti sono di grandissima portata, enormi” e nascono “da problemi interni che richiedono soluzioni internazionali.

Ci vuole un leader a 360 gradi – sostiene senza sbottonarsi più di tanto ma riconoscendo che ha di “Trump un’opinione più elevata di tante altre persone”. Quindi prosegue:

Sono veramente molto ottimista. Sono convinto che i ruoli cambino le persone, modificano l’individuo. La responsabilità storica la sentono tutti.

– Ritiene quindi che Clinton o Trump, una volta alla Casa Bianca, cambieranno il tono dei loro discorsi.

Dovranno farlo – afferma -. Ci sarà immediatamente una serie di negoziati. C’è poi un argomento che nessuno vuole toccare perché sarebbe un suicidio elettorale: i tagli ai benefici delle persone, il “social-security” e le pensioni. La percentuale delle spese sulle quali c’è una certa disponibilità è diminuita. Ci sono obbligazioni del “social-security”, obbligazioni del “medicare”, obbligazioni di pagamento del debito pubblico. Quest’ultimo, con i tassi d’interesse bassi non è poi così doloroso. Lo sarà non appena i tassi cominceranno a crescere.

– I candidati rappresentano due Americhe diverse, assai diverse. Qual è la vera America?

Lo sono tutte e due – risponde immediatamente -. L’America è un paese in continua evoluzione. E’ un paese in cui è esistito il “sogno americano” ed è un dovere di chi lo governa mantenerlo. Questo deve essere l’obiettivo principale. Non puoi togliere ai cittadini il “sogno americano”. Si accetta la disuguaglianza più che in altri Paesi in quanto si rincorre il “sogno americano”; si accetta perché esiste la mobilità nella scala sociale. Quella di oggi è sicuramente un’America meno uguale, ma che esporta ancora un modello di crescita considerato vincente.

Sottolinea che è un Paese che “capisce che deve sostenere i propri cittadini”.

L’America è un paese molto diverso – prosegue -. E’ enorme geograficamente e distinto climaticamente. E’, lo torno a ripetere, un paese sostenuto dal mito del “sogno americano” che non può né deve morire. Vedo, in questo, un obiettivo comune. Si dovranno quindi fare politiche redistributive intelligenti. Ma farle con accortezza perché si potrebbe pensare che tutto è dovuto. Negli Stati Uniti quel che conta è il “my way”. E’ un modello basato sulle piccole imprese che devono crescere; sulle start-up che non sono più tanto numerose come in passato. Ed è questo un fenomeno preoccupante. Gli Stati Uniti sono un paese basato sul senso dell’opportunità ed anche sulla dinamica di questa lingua, l’inglese, assai diretta che riflette la personalità di chi la parla.

Afferma poi che è un Paese molto generoso in cui la percentuale degli aiuti privati è sempre molto alta. E sottolinea la presenza di fondazioni come, ad esempio, quella di Bill Gates.

– La sicurezza che gli Stati Uniti hanno offerto – aggiunge per concludere – neanche deve essere sottovalutata. Se non ci fossero stati gli Stati Uniti, se al suo posto ci fosse stato un altro Paese, siamo sicuri che le cose sarebbero andate così? L’America, in fin dei conti, è stata un buon police-man. Però alla luce dei costi, molti dicono che ora bisogna pensare alle nostre cose e che non siano solo gli Stati Uniti a fungere da gendarme del mondo ma che lavori assieme ad altri gendarmi, anche quelli oggi non molto democratici. Il definire questa relazione e svilupparla coerentemente per promuovere la pace e lo sviluppo sostenibile globale è la sfida fondamentale esterna.

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