Erario, fisco e moneta

Con la trasformazione della forma dello Stato romano, operata da Ottaviano Augusto (ciò che noi chiamiamo passaggio dalla repubblica all’impero e che gli storici chiamano Principato) il Senato, cui era affidato il compito di amministrare i fondi dell’aerarium, decretò un appannaggio per la persona dell’Imperatore -------------------------------------------------------------------------------------------
Con la trasformazione della forma dello Stato romano, operata da Ottaviano Augusto (ciò che noi chiamiamo passaggio dalla repubblica all’impero e che gli storici chiamano Principato) il Senato, cui era affidato il compito di amministrare i fondi dell’aerarium, decretò un appannaggio per la persona dell’Imperatore -------------------------------------------------------------------------------------------
Con la trasformazione della forma dello Stato romano, operata da Ottaviano Augusto (ciò che noi chiamiamo passaggio dalla repubblica all’impero e che gli storici chiamano Principato) il Senato, cui era affidato il compito di amministrare i fondi dell’aerarium, decretò un appannaggio per la persona dell’Imperatore
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Da dove derivano le parole erario, fisco e moneta?

A parte “moneta” che sappiamo tutti che cosa sia, le altre due parole (erario e fisco) le utilizziamo, almeno io, con qualche incertezza. Allora cercherò di spiegare, innanzi tutto a me stesso, da dove vengono queste parole; e che cosa esse denotavano al tempo degli antichi Romani, sia quando Roma era repubblica, sia successivamente quando fu Principato.

Aes, aeris (lèggasi: es, eris) … Ricordo ai lettori di nuova acquisizione che sui vocabolari della lingua latina i nomi vengono designati con due “voci”: il nominativo e il genitivo; mentre i verbi, addirittura, con 4: presente, perfetto, supino, infinito; o 5 voci, se si aggiunge anche la seconda persona del presente. Questi modelli di parole, a scuola, si chiamavano “paradigmi”; essi contengono le forme di base per formare tutte le altre voci di una parola; come, ad esempio, il singolare e il plurale per i nomi, il maschile e il femminile per gli aggettivi; oppure: i modi, i tempi, e le persone, per i verbi.

Ma … ritorniamo ad “aes, aeris”, che presso i Romani significava o rame o bronzo, o più genericamente metallo. (La confusione è comprensibile se si pensa che solo chi lo lavorava sapeva esattamente la differenza tra i due o tre metalli). Se poi qualcuno volesse sapere perché da “aes [ès]” (rame o bronzo) sia venuto fuori “èris”, cioè perché la “s” si sia trasformata in “r”, dirò che si tratta di un fenomeno di trasformazione fonetica.

Un processo naturale (dipendente dal comportamento dei parlanti) che si è verificato in una determinata epoca storica – diciamo IV sec. a. C. – all’interno di un gruppo di parlanti (mettiamo: quelli della penisola italica). Se fossimo più attenti ci accorgeremmo che anche oggi succedono di questi fenomeni; e lo notiamo dal fatto che certe consonanti, in una certa posizione all’interno delle parole, i parlanti di località non tanto distanti gli uni dagli altri (tutta gente che parla la stessa lingua; e addirittura lo stesso dialetto) le trasformano rendendole completamente diverse.

Ora i grammatici e gli studiosi, questa regola secondo la quale nel V-IV secolo avanti Cristo la “s” quando si veniva a trovare in mezzo a due vocali si trasformava in “r”, l’hanno chiamata rotacizzazione, ricavando questo termine dal nome della “r”, che in lingua greca si chiamava rho.

Capiremo meglio presentando un esempio più significativo. Nello stesso arco di tempo è successo che il verbo latino “esse” (la cui radice è “es–”) nell’imperfetto è diventato “eram” da un originario *es-a-m: (radice + caratteristica del tempo storico + desinenza), da cui il moderno “io ero”, così come ce lo troviamo oggi.

Se con tutti questi esempi si capisce, meglio così; ed io sono contento. Se no chiudete pure in parentesi, e lasciate le parentesi a chi le può utilizzare, perché il discorso, nelle linee generali, lo si comprende lo stesso; e … andiamo avanti.

Tutta la lunga filastrocca l’ho fatta per far capire perché da “aes” = metallo, derivi “aerarium” = cassa (dove si custodisce il “metallo”), quindi la cassa del denaro pubblico. Che a Roma era amministrato dal Senato. Da quanto detto, data la discendenza diretta della parola italiana da quella latina e ricostruito il significato di quella latina, ora possiamo capire anche – per l’affinità semantica che intercorre tra le due parole – che cosa sia oggi l’erario. Il tesoro dello Stato.

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E veniamo a “fiscus”. Fiscus, fiscina, fiscella, sono rispettivamente “cestino”, “paniere”, “canestro”. Ancora oggi usiamo la parola fiscella, per indicare il piccolo cestino dove si raccoglie la ricotta per lasciar defluire il siero (ma i Romani vi filtravano anche l’olio).

Con la trasformazione della forma dello Stato romano, operata da Ottaviano Augusto (ciò che noi chiamiamo passaggio dalla repubblica all’impero e che gli storici chiamano Principato) il Senato, cui era affidato il compito di amministrare i fondi dell’aerarium, decretò un appannaggio per la persona dell’Imperatore, cioè una modesta quantità di denaro (metaforicamente: un travaso dall’aerarium al fiscus [cestino], recipiente più modesto) per le necessità personali di Augusto.

Da allora si ebbero due amministrazioni con due contabilità del tesoro pubblico: una praticata dal Senato di carattere generale, e una più piccola – per modo di dire – tenuta dall’Imperatore per la quota di risorse a lui assegnate.

Riferendoci all’oggi, il fisco è la parte di ricchezza che lo Stato raccoglie da tributi e imposizioni.

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Moneta deriva dal verbo moneo = ammonisco (richiamo). Anticamente, ma molto anticamente, a Roma Moneta era una dea, la madre delle Muse. La radice – come la radice di moneo (men-mn-mon: la scrivo in tre forme, perché si tratta di una radice apofonica, cioè che cambia il colore della vocale in base a determinate situazioni linguistiche) – è collegata all’idea di “memoria”.

Perciò “madre delle arti” nel caso della dea, e “ammonire/ammonimento” nel caso del verbo moneo. In epoca storica però l’appellativo di “moneta” (ammonitrice, consigliera) fu attribuito alla dea Giunone, alla quale fu dedicato un tempio sul Campidoglio nel quale (o presso il quale) si coniavano le monete. Praticamente il tempio fungeva da zecca. “Moneta”, quindi, era la dea, la zecca, e i pezzi coniati.

Luigi Casale

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