Governo: al Senato maggioranza stretta. Ala, né fiducia né contro

Una foto del Senato della Repubblica italiana
Senato della Repubblica italiana
Una veduta dell’aula del Senato. ANSA/GIORGIO ONORATI

ROMA. – Fuori dal Consiglio dei ministri, fuori dalla maggioranza. Con una conclusione: non votare né la fiducia né la sfiducia al governo. E’ sulla base di questo sillogismo che Ala-Scelta Civica basa, almeno al momento, il suo atteggiamento nei confronti dell’esecutivo Gentiloni. I toni, rispetto alla nota al vetriolo diramata quando era chiaro che l’ingresso nel governo era stato sbarrato, sono meno furenti e, come spiega Enrico Zanetti in Aula a Montecitorio, il gruppo dei verdiniani-civici ‘apre’ ad una convergenza, ma solo su singoli provvedimenti.

Facendo di fatto da puntello per innalzare o far calare pericolosamente la soglia della maggioranza a Palazzo Madama. E’ al Senato che i 18 senatori verdiniani hanno un ruolo determinante. Senza di loro la maggioranza potrà contare su 112 senatori Pd (il presidente Grasso non vota), 29 tra Ncd e Udc, 19 delle Autonomie, almeno 4 membri di Gal e almeno 5 del gruppo Misto (e con le tre tosiane che, se seguiranno quanto fatto oggi dai loro colleghi deputati, non dovrebbero partecipare al voto).

La soglia, perciò, dovrebbe a fatica essere quella di 170 salvo qualche ‘ingresso’ dell’ultim’ora. Soglia che domani sarà quasi certamente raggiunta ma che, per i prossimi mesi, resta bassa. “Tocca non ammalarsi”, ironizza un senatore Ncd. E a ciò si aggiunga il nodo della commissione Affari Costituzionali, teatro del dibattito sulla legge elettorale.

Lì è allarme numeri: sulla carta la maggioranza è di 15 senatori a 12 ma includendo la minoranza Pd, la cui pattuglia di 3 membri è ‘tradizionalmente’ combattiva. Un loro voto contrario produrrebbe un sostanziale pareggio dove, ad essere decisivo, potrebbe essere proprio l’unico esponente di Ala: Riccardo Mazzoni.

Per ora Ala-Sc tiene il punto e non risparmia frecciate alla minoranza Pd, additata come principale ‘responsabile’ dell’esclusione dal governo. “E’ strano che questo possa essere il Governo in cui parti del ‘no’ possano permettersi di mettere veti su chi ha sostenuto in modo convinto, senza distinguo o minoranze interne, le riforme”, attacca Zanetti in Aula.

Mentre fuori non c’è verdiniano che, in Transatlantico, parli di dietrofront inaspettato (e mirato a tenere unito i Dem) e di un’offerta – fatta di sottosegretariati – che non poteva essere accettata perché non dava alcuna “legittimazione politica”.

Difficile, al momento, che quell’offerta possa essere accettata al momento della composizione del cosiddetto ‘sottogoverno’. “Non si tratta”, è l’ordine di scuderia impartito da Denis Verdini che, anche per alzare la posta, all’inizio avrebbe chiesto due ministeri per i ‘suoi’. Non trattare, però, non significa rompere. I contatti tra Verdini e Matteo Renzi, negli ultimi tre giorni sono stati frequenti.

E nei corridoi di palazzo più di uno spiffero parla di un silente accordo tra Verdini e l’ex premier per rendere Ala paracadute o la zavorra di un governo che molti Dem considerano comunque a tempo. Un ruolo che Ala potrebbe assicurare con un occhio attento alla partita di primavera: una partita di nomine ‘pesanti’ che, tanto per fare qualche esempio, riguarda enti come Eni, Enel, Finmeccanica.

(di Michele Esposito/ANSA)