Bundesbank apre a Draghi, Ue serra le fila dopo Trump

Mario Draghi (a sinistra), e Jens Weidmann (a destra), Presidente della Bundesbank.
Mario Draghi (a sinistra), e Jens Weidmann (a destra), Presidente della Bundesbank. REUTERS/Alex Domanski
Mario Draghi (L), e Jens Weidmann (2nd R), Presidente della Bundesbank REUTERS/Alex Domanski

ROMA. – Segnali di rappacificazione fra la Banca centrale europea e la Bundesbank: al centro dell’Europa si comincia a rinserrare le fila di fronte alle minacce dei prossimi mesi, dalla guerriglia della nuova amministrazione Usa contro il surplus corrente tedesco, alle elezioni ad alto rischio euroscettico.

Jens Weidmann, presidente della Bundesbank già capofila dei ‘falchi’ oppositori di Draghi nel consiglio della Bce, offre un nuovo ramoscello d’olivo al presidente dell’Eurotower: anche se l’inflazione dell’Eurozona è volata all’1,8% (1,9% in Germania), quindi formalmente al livello desiderato, la Bce “non è ancora arrivata al punto di poter frenare del tutto la politica espansiva”, dice alla Redaktion Netzwerk Deutschland.

Politica espansiva che Draghi – secondo indiscrezioni non confermate raccolte a una cena dalla rivista francese Challenges – avrebbe intenzione di mantenere fino a fine mandato, ottobre 2019. E’ un invito alla cautela per nulla scontato da parte della Bundesbank, da principio fortemente opposta al quantitative easing, e fino a ieri all’attacco sulla politica dei tassi negativi (-0,40%) che intacca il risparmio tedesco e i bilanci bancari.

Per la verità, Weidmann sa che la strada è in teoria tracciata. La Bce fino a marzo continuerà a comprare debito al ritmo di 80 miliardi al mese, poi da aprile a 60 miliardi fino a dicembre. La Bce reinvestirà i titoli che via via maturano. Il problema è il dopo e lo scontro può attendere, anche se Draghi ha già detto che se necessaria la Bce può persino aumentare la propria posizione espansiva.

Ma a una lettura più ‘politica’ non sfuggirà che proprio domani Draghi vedrà a Berlino la cancelliera Angela Merkel, protagonista la scorsa settimana, a Malta, di un’uscita a sorpresa a favore di un’accelerata alle riforme in Europa anche al costo di procedere a due velocità. E fra Draghi e la Merkel, ritenuti le due colonne portanti dell’euro nei difficili anni post-crisi finanziaria, ora deve essere intesa: per sincera convinzione o per forza di cose.

Ci sono le elezioni francesi con la imprevedibile variabile anti-euro di Marine Le Pen. Ci sono le elezioni in Olanda e quelle tedesche, a settembre, meno pericolose. C’è la crisi in Grecia che torna ancora una volta, e c’è l’Italia, le sue banche e il voto non escluso a giugno, con lo spread rallentato a 194, ma vicinissimo alla soglia di guardia dei 200, e la borsa a picco nonostante un leggero recupero (+0,58%).

E c’è Donald Trump, che minaccia dazi e tariffe commerciali mirate contro Germania e Cina e con affermazioni plateali del suo team contro il progetto europeo.

Un concentrato di rischi così tossico che tocca stare uniti, archiviare le polemiche e riaprire il dossier della riforma dell’architettura europea. Draghi, due giorni fa all’Europarlamento, non ha affermato solo che l’euro è “irrevocabile”: ha rimbrottato i paesi troppo indebitati che cercano “spazio di manovra” in deficit.

E lasciato cadere una frase che sarà piaciuta a Berlino: “se avremo una convergenza e un rispetto delle regole, creeremo le basi per una situazione di fiducia che ci permetterà di fare passi avanti nell’integrazione europea”. Che parta dalle regole più strette, o dalla solidarietà come vorrebbe Roma, un passo avanti istituzionale potrebbe tornare ad essere un tema in agenda. Paradossalmente grazie a Trump e ai rischi che salti tutto.

(di Domenico Conti/ANSA)

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