Trump pronto al compromesso sull’immigrazione

Proteste per il bando agli immigrati a New York.
Proteste per il bando agli immigrati a New York. EPA/ANDREW GOMBERT
EPA/ANDREW GOMBERT

NEW YORK. – Uniti per un’America più forte e più sicura: in grado di sigillare i suoi confini contro le minacce del terrorismo e della criminalità e di tornare ad imporsi anche militarmente sui principali teatri delle crisi internazionali. Davanti al Congresso Donald Trump indica la strada da seguire per realizzare quella che definisce “l’agenda coraggiosa” che restituirà agli Stati Uniti lo status di superpotenza, quella leadership che secondo il presidente americano è andata svanendo nel corso dell’era Obama.

Intanto tutto sembra pronto per il ‘bando bis’, ampiamente rimaneggiato e ‘depotenziato’ rispetto alla versione originale: il provvedimento dovrebbe infatti applicarsi solo ai futuri visti di ingresso da Siria, Iraq, Iran, Libia, Somalia, Yemen, Sudan. Esentati dal divieto, dunque, non solo i visti esistenti ma anche i “residenti legali permanenti” e i detentori di green card.

Svolta in vista anche sul fronte di una riforma complessiva dell’immigrazione, con Trump che sarebbe pronto a un compromesso che permette di restare legalmente negli Stati Uniti tutti coloro che non hanno commesso alcun serio reato penale, oltre ai cosiddetti ‘dreamer’, coloro che sono entrati in Usa illegalmente da bambini.

La giornata del grande debutto del tycoon davanti a Camera e Senato riuniti in sessione plenaria parte proprio con un attacco frontale al suo predecessore: c’è Barack Obama dietro alla fuga di notizie che ha trasformato il primo mese della presidenza Trump in un mezzo caos. Così come c’è Obama dietro alle proteste anti-Trump che nelle ultime settimane si sono moltiplicate non solo nelle strade di tutte le principali città americane, ma anche in occasione dei dibattiti con i cittadini organizzati a livello locale dai repubblicani.

“Penso sia lui il responsabile – afferma il presidente americano in un’intervista all’ ‘amica’ Fox – penso che dietro ci siano persone legate a lui, probabilmente anche dietro alla fuga di notizie. Una cosa veramente negativa in termini di sicurezza nazionale. E penso che la cosa andrà avanti”.

Un’accusa pesante, a cui l’ex Commander in Chief per ora non risponde. Anche se ormai non è più un segreto che alcuni gruppi legati all’ex presidente – vedi Organizing for Action, nato dalle ceneri della campagna Obama for America – si stiano riorganizzando per dare battaglia contro il tentativo di Trump di smantellare l’agenda obamiana.

Il tycoon intanto si dà i voti: “A+ per lo sforzo, A per i risultati finora raggiunti” e un più striminzito “C o C+ per la comunicazione con il pubblico”. Poi, rivolgendosi alla nazione in diretta tv, ancora una volta traccia le linee di un futuro che intende costruire, partendo da una vera e propria svolta rispetto alla precedente amministrazione.

E, dopo le prime settimane passate a demolire parte dell’eredità di Obama a colpi di decreto, ora arriva l’appello alla maggioranza repubblicana del Congresso a lavorare insieme e ad agire in fretta su alcuni dei provvedimenti e delle riforme più qualificanti dell’agenda ‘trumpiana’: il varo di un bilancio mirato a rafforzare difesa e sicurezza, il via a una vera e propria rivoluzione fiscale sul modello reaganiano, l’abolizione e la sostituzione del “disastro dell’Obamacare”, la riforma del sistema dell’istruzione.

Obiettivo di Trump stavolta è quello di accreditare una visione ottimistica del futuro, ben lontana dal cupo concetto di “American carnage” al centro del suo discorso di insediamento. L’intenzione è di restituire un sogno, l’American Dream, a tutti gli americani: “Anche a quelle donne e a quegli uomini dimenticati”, che rappresentano una parte dello zoccolo duro del suo elettorato, fuori dalle grandi metropoli e nell’America più profonda.

Intanto monta la polemica sui pesanti tagli di bilancio proposti dalla Casa Bianca per l’agenzia federale per la protezione dell’ambiente (Epa) e per il Dipartimento di stato, a favore di un’impennata delle spese militari, contro la quale si è scagliata Mosca minacciando di “reagire” se dalla “retorica” si passasse ai fatti.

E ben 12 ex generali hanno scritto al presidente per sottolineare come la priorità debba essere “finanziare la diplomazia, e non le munizioni”. Tra i firmatari alti ufficiali del calibro di John Allen, ex top commander delle forze Usa in Afghanistan, William Casey, ex numero uno dell’esercito, e Keith Alexander, ex capo della Nsa.

(di Ugo Caltagirone/ANSA)