Si dice: “cui” o “a cui”?

 

È già un po’ di tempo che di fronte al dilemma – cornuto, anche quello! – ho deciso di seguire il corno di sinistra. Così nella frase “relativa” col pronome relativo in caso obliquo – per intenderci la frase relativa introdotta dal pronome “cui” con valore di: “al quale” , “alla quale”, o “ai quali” e “alle quali” – non dico più “cui” (senza preposizione, ma, puntualmente o puntigliosamente, ora dico: “ a cui “ (con la preposizione “a”). Non come ci correggevano a scuola, almeno fino all’esame di maturità.

Tuttavia, non so ancora se ciò sia sufficiente a vantarmene.

Tutti conosciamo il pronome relativo. Ma anche se qualcuno non lo conoscesse come definizione, certamente, nel parlare lo utilizza, e lo sa usare. E utilizzandolo sa che esso si presenta in due forme: la prima è “quale/quali”, preceduta dall’articolo determinativo oppure dalla preposizione articolata; la seconda è “che/cui”. In questo secondo caso “che”, si usa per i casi retti (soggetto e complemento oggetto) e non ha né articolo, né preposizioni; mentre “cui” generalmente è seguito da una preposizione. Quando questa manca si sottendente la preposizione “a”.

La seconda forma, più sintetica, direi quasi implicita, si chiama anche proclitica, (cioè che nella pronuncia forma un unico gruppo con la parola che segue).

Saper usare queste forme espressive – nel caso in esame, il pronome relativo, sia nella forma esplicita (chiara), sia in quella implicita (più vicina al pronome relativo latino da cui direttamente deriva – si chiama competenza linguistica. E questo non si vuol dire che necessariamente si debba essere tutti letterati; basta possedere un buon modello di lingua, il cosiddetto standard. Quello che si apprende praticando un gruppo di parlanti “competenti”. Una competenza relativa raggiungibile da qualsiasi parlante.

È come se ognuno, attraverso la personale esperienza della pratica linguistica, avesse una propria lingua personale (idioma). Io, la mia; tu, la tua; ognuno, la sua. Ed è questa la “competenza linguistica”: la dimensione relativa, personale, della capacità di usare la lingua facendo funzionare morfologia e sintassi. Come dicono i tecnici: saper far funzionare la morfo-sintassi. E questo, compiuti i tre anni, in condizione normale, ce l’hanno tutti i parlanti.

Bene, a questo punto non so se la mia ignoranza arriva alla vostra! Perciò, cercherò tuttavia di spiegare – se possibile – e di giustificare il perché della mia scelta di usare “a cui”, laddove i dotti usano semplicemente “cui”.

* * *

Da dove iniziare?

Qualche tempo fa rileggendo una pagina di giornale, ho trovato questo titolo: “La campagna elettorale cui stiamo assistendo ….. “ (da: La panna montata e lo scandalo di Siena di E. Scalfari (editoriale), in la Repubblica di domenica 27 gennaio 2013).

Come si vede nel testo proposto, i letterati per dire: “al quale” o “alla quale”, continuano a dire “cui” senza la preposizione “a”. Come facevo anch’io fino al diploma di maturità.

Gli altri – noi – invece diciamo “a cui”, aggiungendo la preposizione semplice al pronome relativo “cui”.

Da ragazzi, a scuola, gli insegnanti erano molto severi nel correggerci questo “errore”. E giustamente. Ma allora era necessità adeguarsi. Infatti, sostenevano giustamente che “cui”, essendo dativo del pronome relativo latino (qui, quae, quod; dativo: cui), di per sé già significa “al quale o alla quale”; e allora non c’è bisogno di riposizionare la preposizione “a” già presente (virtualmente!) nella parola CUI. Sarebbe come dire – dicevano essi! – “aal quale”. Ma allora già a nove anni i ragazzi destinati ad essere intellettuali e classe dirigente conoscevano – tutti – qualche rudimento di latino.

Ma adesso?

Adesso invece – secondo me – stride più la forma originaria, quella che una volta sembrava corretta, cioè “cui” (senza preposizione), che non quella con la preposizione: “a cui”.

La forma espressiva “cui” poteva essere accettata almeno fino a quando fosse stato riconosciuto da tutti come un “dativo”, cioè col valore di “al quale”.

Ma ora che il dativo non c’è più (come caso autonomo della morfologia italiana) se non nei pronomi personali? È vero – d’accordo – che cui è un antico pronome latino (dativo singolare di qui, quae, quod); però chi lo riconosce?

Sarebbe riconoscibile se la lingua avesse conservato anche gli altri casi, o almeno un ablativo da contrapporre al dativo in maniera da stabilire un’opposizione cui/quo, e utilizzare così la prima forma per il legame sintattico senza preposizione, e la seconda per il legame preposizionale; ma visto che l’uso del cui si è esteso a tutti le situazioni di legami preposizionali (i cosiddetti casi obliqui. Esempi: di cui, per cui, da cui, a cui [movimento verso], ecc.), non si capisce perché non si dovrebbe dire anche a cui (ex dativo).

Voglio concludere. Solo chi conosce il latino oggi può sapere che cui corrisponde al dativo singolare del pronome relativo qui, quae, quod, e che in italiano si traduce: al quale, alla quale. Ma gli altri? Fortunatamente, nel corso dell’evoluzione linguistica, questo caso di opacità (in linguistica: non conoscenza della origine e del senso di una parola) ha già provveduto a selezionare “naturalmente” (cioè attraverso il comportamento spontaneo dei parlanti) il segno “a cui” del codice-lingua, facendolo assurgere a dignità di forma standard.

E qui opportunamente – ma non per giustificarmi – voglio ricordare che la lingua è del popolo che la parla, come diceva Gianni Rodari richiamando Lewis Carroll; non degli scrittori, né dei vocabolari, anche se i primi cercano di usarne il livello più alto (considerato il loro elevato grado di competenza), e i secondi fanno del loro meglio per registrare tutte le varietà correnti in una data epoca, o in un determinato autore.

Perciò, non vale ciò che continuano a sostenere i puristi, e cioè che dire “a cui” è come dire “a- al quale” ripetendo la preposizione “a”, già implicitamente contenuta – essi dicono – nella forma cui. Chi oggi sarebbe in grado di cogliere la ridondanza (la ripetizione della “a”) morfo-semantica?

Il parlante, per il quale la lingua non è così trasparente come al purista, dice “a cui”, nella stessa maniera come dice: con cui, per cui, in cui, senza porsi il problema. E giustamente (secondo me).

Per la verità il problema della ripetizione della preposizione non se lo porrebbero neppure i puristi se non fossero anche un po’ pedanti. Se no, dovrebbero spiegarci perché – analogamente al caso del dativo – la espressione “per cui” non debba o non possa essere riducibile al significato di “per – al quale” . Oppure perché cui, quando si riferisce ad un plurale (in latino era “quibus”), non dovrebbe prendere la preposizione “a”?

Allora, alla luce di queste considerazioni, ma ancor più confortati dall’autorità del popolo, dei parlanti, padroni della lingua, possiamo stabilire che: “in italiano il pronome relativo atono (le forme senza accento, cioè: che e cui) crea un’opposizione sintattica che/cui ( cioè, tra “che” e “cui”) per la quale “che” si usa nei casi retti (soggetto e compl. oggetto) e “cui” nei casi obliqui (cioè i complementi preposizionali, compresa la forma “a cui”).

In altre parole se la dipendenza dal verbo è diretta, essa viene espressa dall’uso del che; se invece è indiretta sarà necessario l’uso del cui (accompagnato perciò da ogni sorta di preposizione richiesta dal verbo).

Restando nella citazione : “La campagna elettorale cui stiamo assistendo … “ del citato Eugenio Scalfari, possiamo correggerla ora a modo nostro: “La campagna elettorale a cui stiamo assistendo …” , anche se qualcuno storcerebbe il naso, o le labbra.

Luigi Casale