Amante

 

Non mi piace la parola “amante”.

Certamente essa è accettabile, e anche dignitosa, in un testo letterario; sul piano comunicativo e su quello artistico. E, come tutte le parole scelte da chi o parla o scrive nella sua originale espressione, definisce una precisa realtà: rimanda cioè a un referente (così si dice!), che quando è inventato dalla fantasia dell’autore si chiama referente letterario. Questo soggetto, fisico, astratto, o semplicemente contenuto di pensiero, è  chiaramente individuabile non solo nella parte di significato che lo indica in sé (denotazione), ma soprattutto in quella che implica (coinvolgendo emotivamente il lettore) sentimento: amore, odio, piacere, dolore, ecc.,  oppure ricordi: adesione, repulsione, partecipazione, sulla base dell’esperienza, e esistenziale e linguistica,  che ognuno ne ha fatto nella vita (e questo secondo aspetto del significato si chiama connotazione). Proprio a causa della sua possibile connotazione, la parola “amante” non mi piace. Non mi piace nell’uso che se ne fa normalmente. E proprio per quell’accumulo di significati altri, sedimentati su di essa dall’uso.

Preferisco: “amata”. Oppure: “amato”, a seconda dei casi.

Intanto come participio presente (aggettivo verbale, caratterizzato dal suffisso consonantico “nt” e dalla terminazione in “-e” – al singolare – ed in “-i” – al  plurale) non mi consente di distinguere il maschile dal femminile: l’amante (m.) dall’amante (f.). E poi perché insiste su quell’elemento discriminatorio di tipo sociologico, insito in quella c.d. connotazione di cui ho parlato di sopra.

Immaginate di pensare ad un amante; oppure ad un’amante. Qui è l’apostrofo che fa la differenza!

Sarà colpa della nostra sensibilità, dell’educazione, sarà il sistema dei valori condivisi: le convenzioni, i pregiudizi – dite quello che volete! – o la stessa civiltà (e la cultura) occidentale.  Ma, sta di fatto che “amante” mi suona male. Eppure non dovrebbe essere così.

Perciò preferisco l’altro aggettivo verbale (il participio perfetto), amata o amato.

Ma la cosa non riguarda solo la civiltà cristiana. La distinzione tra amore casto (sano, sacro) e amore profano (“fuori dal tempio”) è un classico, e si è sviluppato con l’evoluzione dell’uomo. Pensate solo all’inimicizia tra Giunone (la sposa) e Venere (l’amante) nella mitologia classica!

Ma ritorniamo alle parole.

Per indicare l’individuo adulto della specie umana (mammifero) abbiamo le coppie di parole: “maschio/femmina”; “uomo/donna”; “signore/signora”; “marito/moglie”, e tante altre in ragione delle funzioni, dei compiti e dei ruoli; come pure: amante/amante.

Non va dimenticato che ci riferiamo alla lingua italiana. E’ importante precisare ciò: perché la lingua, come ha detto qualcuno, è il DNA del gruppo sociale.

Di passaggio faccio notare che l’Unità d’Italia l’ha fatta la nostra lingua letteraria, l’italiano. E tutte le persone che nei secoli l’hanno usata.

Perciò: Grazie, Dante!

Lasciamo da parte le parole “maschio” e “femmina” (la loro origine è nell’indeuropeo) le quali indicano la capacità e il rispettivo ruolo – potenziali – delle due persone nella funzione del procreare: parole queste che si adattano anche ai bambini e a tutti i viventi sessuati; e vediamo le altre coppie.

Signore” e “signora”. Rappresentano il gene (per restare nella similitudine del DNA) di una cultura nella quale la struttura sociale è di tipo gerarchico: prima i “vecchi”, gli anziani; poi i giovani. “Senior” (più vecchio) rispetto a chi è più giovane (“iunior”).

Da “senior”(signore), poi, per banalizzazione è venuto anche “signora”.

Uomo/donna”. Non so se veramente la parola latina “homo” (uomo), da cui deriva l’italiano “uomo” sia da collegarsi ad “humus” (terra). Se così fosse allora potremmo collegarla direttamente alla forma ebraica del nome Adamo, e scorgervi addirittura un contatto culturale col racconto biblico della creazione dell’uomo, fatto dal fango e animato dallo spirito (il soffio di Dio).

Donna, invece ci viene da un’altra famiglia di parole: domus (casa); dominus (padrone di casa); domina (padrona di casa). Se poi “humus” e “domus” siano collegabili è un problema su cui soprassediamo. L’etimologia – d’accordo! – ci dà l’origine delle parole; ma non possiamo pretendere di poter venire a capo di tutto. Non dobbiamo aspettarci l’origine prima (che non sappiamo neanche che cosa sia), ma accontentarci piuttosto di quel tanto che ci basti a capire e a capirci, affinché la lingua diventi più trasparente.

Per indicare lo stesso concetto con un’identica funzione semantica, la lingua francese ha selezionato la parola “femme” (latino: “femina”) utilizzandola anche per indicare l’italiano  “moglie” (latino: “mulier”, presente anche nella voce dotta dell’aggettivo italiano “muliebre” = femminile). Gli italiani, in altre epoche (vedi i poeti cortesi medievali) dicevano: “madonna” (latino: “mea domina”= mia padrona); e anche i francesi evidentemente se nel francese moderno è rimasta la forma “madame”= ([mia] signora).

Marito” è anch’esso collegato a “maschio” in quanto derivante dalla stessa parola latina “mas” .

Per concludere un accenno a uxor. Il termine latino “uxor” (sposa, moglie) è rimasto nella lingua napoletana (unica!) nell’espressione ‘nzurà (l’atto del prendere moglie) che è lo “sposarsi” dell’uomo, rispetto allo sposarsi della donna che si dice “mmarità” (atto del prendere marito).

 Luigi Casale