“25 Aprile”, una vera Festa Nazionale?

Come ogni anno con l’approssimarsi della ricorrenza del 25 Aprile cominciano inevitabili le polemiche. Nessuna altra nostra festività civile è accompagnata da tutte le problematiche che la “Festa della Liberazione” solleva.

Quest’anno per esempio le dispute più eclatanti si sono avuti a Milano e a Roma. Nel primo caso perché un gruppo dichiaratamente di destra (Lealtà e Azione) ha organizzato una propria celebrazione con annessa visita al cimitero di Milano per rendere omaggio ai caduti della RSI ivi sepolti; nel secondo caso perché nel corteo romano promosso dall’ANPI è prevista la partecipazione di alcune delegazioni Palestinesi e i rappresentanti della Brigata Ebraica, anch’essi invitati, non hanno però gradito, tanto che, salvo ricomposizioni avvenute dopo la stesura del presente articolo, si avranno a Roma due cortei separati: uno dell’Anpi con i palestinesi presenti e uno del PD con la Brigata Ebraica.

Ma perché questo avviene? Perché questa festa non viene mai vissuta con serenità? Io personalmente, per esempio sono ormai molti anni che non celebro più il 25 Aprile, in quanto la ritengo una ricorrenza estremamente politicizzata che non unifica il paese ma lo divide. La mia è stata una scelta fatta in giovane età, decisione che negli anni a seguire, avendo avuto modo di approfondire i miei studi sulla storia del nostro paese, ho riconfermato.

Dal mio punto di vista una festa nazionale dovrebbe essere un qualcosa che appartiene all’intera comunità, qualcosa che dovrebbe unire un popolo o la stragrande maggioranza di esso attorno a dei valori comuni, dovrebbe rappresentare un patrimonio condiviso, un’identità comune, in cui tutti si possono identificare, e sinceramente non credo che il 25 Aprile abbia queste caratteristiche.

Mi rendo conto che un’affermazione del genere può sembrare forte e già immagino che qualcuno mi abbia subito liquidato concludendo che sono un “fascista di merda”, magari qualcuno un poco più gentile mi potrebbe accusare di essere un “revisionista” con altrettanto carico di disprezzo con cui il termine revisionista viene spesso e volentieri accostato a quello di fascista.

Eppure le voci critiche verso questa ricorrenza non sono poche. Molte persone come lo scrivente non la sentono propria, per tantissima gente il 25 si fa festa perché è festa, perché come quest’anno chi può ha fatto il ponte, non perché ne percepisce quello che dovrebbe essere il valore o il messaggio, o perché s’identifica in essa.

Chiaramente in un paese come il nostro dove si ricorda continuamente che la nostra è una repubblica nata dalla Resistenza, non riconoscersi in essa, metterla in discussione vuol dire mettere in discussione il fondamento del nostro stesso assetto istituzionale e della nostra democrazia. Ora questo sarebbe vero se questa correlazione tra Resistenza e democrazia fosse esclusiva e se realmente la nostra democrazia fosse la filiazione diretta e consequenziale del processo resistenziale. Il punto cruciale è che mio avviso non lo è! non ritengo che se non ci fosse stata la Resistenza non ci sarebbe stato nessun processo democratico successivo.

È questo il grande inganno e il motivo per cui questa festività più di altre scatena polemiche, perché nonostante la retorica non tutti i cittadini di questo paese, a mio avviso giustamente, riconoscono nella Resistenza un qualcosa che è parte del proprio patrimonio culturale e identitario. Questo avviene al di là dell’indubbio valore degli uomini e delle donne che hanno combattuto nelle file dei partigiani, che meritano e meriteranno sempre rispetto. Ma rispettare qualcuno per le sue scelte non vuol dire condividerle e farle proprie, né impedisce di esprimere delle critiche in generale.

Il trascorrere del tempo l’allentarsi dei vincoli “culturali” e dei condizionamenti derivati dall‘esito della 2° guerra mondiale e del confronto bipolare hanno permesso di approfondire le ricerche storiche; ricerche che hanno messo in luce forti contraddizioni tra i fatti avvenuti e quello che per esempio è stato per anni riportato sui libri di storia utilizzati nelle scuole superiori italiane o alla storia insegnata nelle università.

Basti pensare ai libri di Giampaolo Pansa, giornalista uomo sicuramente non di destra, allievo durante i suoi studi universitari di Alessandro Galante Garrone, che con il suo lavoro ha fatto conoscere al grande pubblico avvenimenti e fatti non sempre edificanti del biennio 43-45. Ma prima di Pansa e di molti storici di professione fu anticipatore Giorgio Pisanò, anch’egli giornalista che fece un lavoro certosino che a dispetto delle sue idee politiche e del suo passato, fascista e soldato della RSI, fu caratterizzato da una onestà intellettuale che molte volte è mancata in parecchi storici e analisti politici teoricamente “democratici”. Ma potremmo citare anche altri che a vario titolo possono essere considerati revisionisti: Giordano Bruno Guerri, l’indimenticato Indro Montanelli, maestro del giornalismo italiano, Ernesto Galli Della Loggia oppure Renzo De Felice, il più grande storico sul fascismo in Italia, che per primo ne ha fatto la storia nella forma corretta cioè partendo da fatti e documenti.

Il lavoro di queste persone ha progressivamente contestualizzato e storicizzato gli eventi italiani e ovviamente ha in parte demolito la retorica del mito resistenziale evidenziandone i limiti, le reali dimensioni e purtroppo anche i crimini e le manchevolezze.

Io ritengo che l’Italia sia diventata una democrazia indipendentemente dalla Resistenza per il semplice fatto che il suo destino era stato deciso a Yalta, dove il nostro paese è stato assegnato alla sfera d’influenza americana. Magari non era detto se saremmo diventati una repubblica o rimasti una monarchia ma sicuramente sì una democrazia, perché gli americani hanno tanti difetti ma di norma tendono, dove possono, a creare regimi democratici; magari anche solo formali ma lo fanno (ritengo che questo li faccia sentire in pace con la coscienza, ma questa è un’altra storia).

Quando si parla di quel periodo e della genesi dell’Italia Repubblicana bisogna tener presente che il lasso di tempo che va dal 25 luglio 1943 all’aprile del 45 è uno dei più complessi articolati e confusi che si siano mai presentati nella storia dell’Europa. l’Italia in quei due anni ha subito un trauma profondo che non è stato mai affrontato realmente, semplicemente rimosso, messo da parte, ma mai curato.

Per curare un trauma però bisogna analizzarlo per quello che è veramente, nella sua realtà e in tutta la sua crudezza; invece nel racconto di quegli eventi che è stato fatto e che ancora nelle scuole viene proposto ci sono molte inesattezze storiche, troppe!!

Per esempio la resistenza, tranne che nelle ultime settimane prima del 25 aprile 45, non fu un fenomeno di popolo, ma minoritario. Ormai la maggior parte degli storici concordano che dopo l’8 settembre, il disfacimento dello stato italiano e la fuga ignominiosa del Re, la maggior parte delle persone soprattutto ex soldati e giovani rimasero a casa nascosti ad attendere la fine della guerra, quindi né con la Repubblica sociale né con i Partigiani, forse nella consapevolezza che ormai le sorti del paese non dipendessero più da loro.

La resistenza non fu l’unico contributo militare italiano alla guerra contro la RSI e i Tedeschi, eppure non viene mai celebrato con pari enfasi il contributo dato dal Corpo Italiano di Liberazione prima e dei Gruppi di Combattimento poi.

La lotta partigiana fu un fenomeno limitato geograficamente basti pensare al fatto che parte del centro Italia e tutto il sud non ne sono stati coinvolti.

Che piaccia o no si trattò di una guerra civile. A torto o a ragione una parte d’Italiani decisero di continuare a combattere contro gli alleati e a fianco dei tedeschi e quando un popolo si divide e si scontra si chiama guerra civile. Tra l’altro molti dimenticano che lo scontro del 43-45 aveva avuto un prologo nella Guerra di Spagna (1936-1939) quando antifascisti inquadrati nelle Brigate Internazionali si scontrarono più volte con il CTV inviato da Mussolini a sostegno dei Franchisti (per es. nella Battaglia di Guadalajara).

Infine l’Italia la guerra l’ha persa e se vogliamo anche male. Per americani, inglesi, francesi etc. noi siamo stati sconfitti e come tali siamo stati trattati. Il contributo della Resistenza e del Corpo Italiano di Liberazione non ha modificato l’impianto generale: “Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: è soprattutto la mia qualifica di ex nemico che mi fa considerare come imputato….” Queste furono le parole iniziali del discorso di De Gasperi il 10 agosto del 1946, alla conferenza di pace di Parigi. Non sono parole di un vincitore, assolutamente no.

Se qualcosa in seguito è cambiato è perché a un certo punto è iniziato il conflitto est-ovest e questo ha fatto sì che la necessità di confrontarsi con il blocco Sovietico mitigasse molte delle clausole dei trattati di pace.

Non voglio qui entrare nel merito di chi ha torto o chi ha ragione, la storia ha già emesso i suoi verdetti, quello che voglio evidenziare è che negare che gli italiani fossero divisi e combattessero tra di loro non permette di capire perché poi a distanza di 70 anni ci troviamo ogni anno a polemizzare su questa data e sul perché molti non si identifichino con essa. Mi si potrebbe obbiettare che una parte avesse torto e l’altra ragione, ma anche dando per scontata questa cosa, rimane il fatto che rinnegare la dignità degli sconfitti non è un gesto teso a superare il trauma della divisione ma a perpetuarlo.

Tornando per esempio alla Spagna, Francisco Franco dopo aver dato inizio alla costruzione del monumento della Valle de Los Caidos, inizialmente dedicato a Josè Antonio Primo de Rivera, decise che nel mausoleo sarebbero stati seppelliti sia caduti Repubblicani che Nazionalisti, forse fu solo un gesto di facciata, ma di fatto fece un qualcosa che tendeva a superare l’antagonismo, riconoscendo soprattutto la dignità e la buona fede dei caduti della parte avversa.

Un gesto del genere in Italia non è stato mai fatto.

Noi siamo ancorati a un confronto che è ormai storia, che in realtà moltissimi italiani non sentono quasi più figuriamoci poi i nuovi italiani e gli stranieri residenti in Italia. Non possiamo continuare a rifiutare la nostra storia, possiamo criticarla anche aspramente, ma non possiamo mistificarla o addirittura falsificarla. Non è facendo finta che il Fascismo non sia mai esistito che rafforzeremo le nostre convinzioni democratiche, non è rifiutando il fatto che gli italiani si sono divisi e combattuti duramente che supereremo quel trauma, anzi l’atteggiamento di esclusione è come se amplificasse e perpetuasse la guerra civile per un tempo indefinito che ci blocca anche nel nostro futuro.

Il mondo è profondamente cambiato ormai lo scontro non è più tra destra e sinistra, che ormai sembrano categorie vecchie di secoli, gli scontri sono altri. Per esempio, come dicevo all’inizio, le polemiche sulla presenza di Palestinesi e Brigata Ebraica nello stesso corteo: un evento del genere conferma il carattere estremamente politico e divisivo di questa data ma soprattutto non centra nulla con la nostra storia.

Il punto è che interrogarsi sul 25 aprile in realtà vuol dire porsi domande sull’identità Italiana contemporanea e questo chiaramente mette in crisi molte persone, molti settori della società e della politica. Apparentemente non c’è una connessione diretta, ma sapere chi siamo, da dove veniamo porta a decidere anche cosa vogliamo fare oggi e dove vogliamo andare nel futuro; determina anche le scelte più specifiche come le politiche economiche o quelle estere etc. e noi più che mai abbiamo bisogno di decidere cosa fare “da grandi”.

Superare il 25 Aprile così come viene interpretato e proposto da 70 anni sarebbe il segno che il trauma è stato curato e che siamo finalmente liberi di pensare al futuro e alle sfide che ci si presentano.

Stefano Macone

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