Ripetizioni e superlativi, fa discutere il “Trump-speak”

NEW YORK. – Metodo o follia? Al giro di boa dei primi 100 giorni, i linguisti passano al microscopio la retorica di Donald Trump. Lo spunto è venuto dall’ultima intervista all’AP, concessa lo scorso fine settimana. “Va oltre i limiti del nostro tipo di analisi”, ha detto la storica del linguaggio Kristen Du Mez citando i classici “intensificatori verbali” del “Trump-speak”: espressioni come “very, very”, “many, many”, e il raro “super-duper”, quasi da fumetto. “Nessun presidente – ha osservato – lo aveva mai usato prima”.

Per Kathleen Hall Jamieson dell’University of Pennsylvania, il modo di esprimersi di Trump è una sorta di “stream of consciousness” basato sulla libera rappresentazione dei pensieri come compaiono nella mente prima di essere riorganizzati logicamente in frasi.

David Beaver, all’Università di Austin, ha paragonato la lingua di Trump a quella della pubblicità, “basata sul potere persuasivo delle emozioni”. John Baugh, alla Washington University, ci ha visto “quella dell’uomo della strada di New York, che ‘te la canta tutta’ ed è anche un po’ bullo”.

Trump non è il primo presidente che massacra la lingua di Shakespeare (celebre George W. Bush, che diede origine a una serie di “bushismi” raccolti in una comica antologia), ma i suoi predecessori hanno sempre parlato in modo “costruito”, ponderando le parole e preparandosi prima di interviste e conferenze stampa con risposte pronte ad esser messe sul piatto, ha spiegato la Jamieson.

Con Trump, questo modello è finito in naftalina. La scelta lessicale è estremamente semplice. Le cose sono “terribili” o “incredibili”, “buone” o “pessime”. Le ripetizioni abbondano: quando Trump vuole portare a casa un punto, non molla la presa. Se l’argomento della domanda non gli piace, cambia soggetto o mormora parole incomprensibili.

Eppure, a via di “ripetizioni, non sequitur, superlativi e tentativi di conquistare la fiducia dell’ascoltatore, ripetizioni di ‘you know’, sai”, secondo Paul Breen dell’Università di Westminster in Gran Bretagna, “c’è metodo, non follia, nella lingua di Trump”. Una tesi condivisa quantomeno dal tycoon: “Sono andato a una scuola Ivy League”, ha detto una volta in campagna elettorale: “Conosco le parole. Io ho le migliori parole”.

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