Bce alza le stime del Pil, spinta dagli immigrati nuovi europei

Immigrati
Mario Draghi, tpresidente della Bce. EPA/VALENTIN FLAURAUD
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Mario Draghi, tpresidente della Bce. EPA/VALENTIN FLAURAUD

ROMA. – Ci sono anche le donne e gli immigrati dietro la ripresa dell’Eurozona e l’aumento dell’occupazione. Parola della Banca centrale europea, che sul tema della gestione dell’immigrazione fa il ‘controcanto’ all’offensiva di Donald Trump dopo aver difeso a spada tratta il commercio globale, altro cruccio dell’attuale Casa Bianca.

“L’aumento della forza lavoro durante la ripresa economica è stato trainato dalla partecipazione femminile”, con un aumento della popolazione femminile attiva più forte che per gli uomini grazie a una percentuale di persone con istruzione terziaria più alta fra le donne che fra gli uomini. E c’è di più a favore del ruolo delle donne nell’uscita dalla grande crisi: la Bce sottolinea “la tendenza da parte delle donne a entrare nel mercato del lavoro quando il proprio compagno perde il lavoro o abbandona la forza lavoro”.

Non solo le donne hanno contribuito a tirare l’Europa fuori dalle secche: secondo gli economisti di Francoforte – con una presa di posizione in netta antitesi alle posizioni dei partiti populisti europei e in special modo, in Italia, alla Lega Nord – un ruolo importante lo giocano anche i migranti, specie quelli dell’Est Europa. “Durante la ripresa l’immigrazione ha dato un ampio contributo positivo alla popolazione in età lavorativa, riflettendo soprattutto l’afflusso di lavoratori dai nuovi stati membri dell’Unione europea”. E “a sua volta, ciò ha verosimilmente avuto un effetto considerevole sulla forza lavoro, in particolare in Germania e Italia”.

La disoccupazione scesa al 9,1% è stata definita da Draghi la base della ripresa dei consumi e dunque un elemento fondamentale della crescita, con un Pil atteso per quest’anno in crescita del 2,2%. Ma il bollettino conferma anche l’andamento deludente dell’inflazione, che la Bce si aspetta ferma a un 1,2% medio nel 2018, ben lontano dal ‘quasi 2%’ che per statuto deve perseguire.

E dunque non sarà facile il lavoro del presidente Mario Draghi da qui al 26 ottobre, data del consiglio direttivo in cui dovrà presentarsi con in mano un compromesso sul futuro del quantitative easing. Le ultime indiscrezioni parlano di una distanza ancora ampia fra i ‘falchi’ che premono per un’uscita ben definita dal quantitative easing, e le ‘colombe’ che potrebbero alla fine spuntare che agli acquisti di debito non venga fissato un termine irrevocabile.

Se Draghi probabilmente preferirebbe prendere tempo, dall’altra parte a mettere pressione è l’effetto-scarsità dei bond acquistabili di alcuni paesi, a partire dalla Germania: anche con l’atteso calo del Qe a 40 miliardi al mese a partire da gennaio, non si andrebbe oltre l’estate 2018. Fra le ipotesi che affiorano con maggiore insistenza c’è quella di sopperire a tale mancanza di titoli di Stato acquistabili comprando una quota più ampia di ‘corporate bond’, le obbligazioni societarie, che al momento sono ben inferiori rispetto al consentito nel portafoglio acquisti di Francoforte.

(di Domenico Conti/ANSA)