Bufera Russiagate, Manafort fra viaggi e tre passaporti

Un primo piano di Trump affiancato da Manafort
Donald Trump e Paul Manfort
Trump e Manafort

 

WASHINGTON. – Tre passaporti americani, ognuno con un nome diverso. Ma anche viaggi in Messico, Cina ed Ecuador con un cellulare e un indirizzo email registrati sotto falso nome. Sono i dettagli che emergono su Paul Manafort, rivelati dalla Cnn, mentre l’ex manager della campagna di Donald Trump resta la figura di maggiore spicco, l’uomo più vicino al tycoon poi eletto presidente nel mirino dell’inchiesta sul cosiddetto Russiagate condotta dal procuratore speciale Robert Mueller, che proprio con l’incriminazione di Manafort e del suo ex socio Rick Gates ha segnato una svolta e un nuovo capitolo.

Nel quale però l’attenzione si stringe inevitabilmente su ogni parola, ogni gesto, ogni decisione presa da Trump e dal suo stretto entourage. Così diventa interessante -se sarà rilevante lo proverà l’indagine- il fatto che quando ancora in campagna elettorale fu suggerito un incontro con il presidente russo Vladimir Putin, Trump “non disse né sì né no”.

L’episodio risale al marzo 2016 e l’idea di organizzare un incontro con il presidente russo Vladimir Putin, quando fu avanzata nel marzo 2016 da George Papadopoulos in un incontro con i consiglieri per la politica estera, che fu anche occasione per il volontario della campagna di presentarsi. E’ dello stesso Papadopoulos – attorno al quale l’inchiesta ha preso particolare ritmo, dopo il suo arresto – l’ammissione di aver mentito all’Fbi, quindi la collaborazione “proattiva” adesso in corso con gli investigatori guidati da Mueller.

Fu però Jeff Sessions, che allora presiedeva la squadra per la sicurezza nazionale del candidato repubblicano, a respingere la proposta. Non un dettaglio da poco se quello che si cerca, tra le maglie di incontri, e-mail, informazioni e contatti più o meno ‘pericolosi’ o semplicemente attendibili, è la prova che l’entourage di Trump, se non proprio il candidato in persona, sapessero dei presunti tentativi da parte della Russia di trovare una via per influenzare il processo elettorale negli Stati Uniti.

I segnali di quella collusione, insomma, che Trump continua a liquidare come teoria inconsistente e Fake News. La rete però è messa al microscopio degli inquirenti, e quindi -scrive il Washington Post- che nonostante il ruolo di Papadopoulos venga sminuito da presidente e Casa Bianca, emerge da testimonianze e documenti che il giovane e ‘proattivo’ volontario aveva invece contatti regolari con figure senior della campagna di Trump, nonchè si presentava come suo ‘surrogato’ a interlocutori vari, anche stranieri, a giornalisti.

Così in queste ore la cautela prima di tutto, che porta il Senato a rinviare l’iter per la conferma della nomina di Sam Clovis per un ruolo nella dirigenza del ministero dell’Agricoltura come indicato dal presidente Trump. Perchè Clovis, che ha co-presieduto la campagna elettorale del tycoon, secondo documenti che fanno parte dell’inchiesta di Mueller sapeva che Papadopoulos parlava con rappresentanti russi. Adesso Clovis sta collaborando in maniera “cooperativa” con la commissione del Senato che pure è incaricata di fare chiarezza sul ‘Russiagate’.

Intanto continuano al Congresso le testimonianze di Facebook, Twitter, Gooogle sui tentativi di intromissione sostenuti da Mosca sui social network durante la campagna elettorale. Ed emerge una impressionante mole di materiale, fanno sapere da Capitol Hill, dove tra la sorpresa e lo sgomento si chiede adesso conto ai giganti tech su come non si sia fatto di più per garantire maggiore sicurezza.

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