Terrorismo: cinque sospetti pro Isis, ma non basta per arrestarli

TORINO. – Sette amici per la pelle. Insieme hanno frequentato la stessa scuola elementare in Tunisia. Insieme hanno raggiunto Torino e, per ottenere il permesso di soggiorno, si sono iscritti all’Università fingendosi studenti. Insieme si sono trasferiti a Pisa e hanno spacciato droga. E insieme, secondo le indagini dei carabinieri del Ros, hanno formato una cellula di terroristi collegata all’Isis. Tanto che due di loro sono morti in Siria combattendo per il Califfato.

E’ da mesi che la procura del capoluogo piemontese desidera arrestare questo gruppo di giovani tunisini (hanno fra i 30 e i 25 anni). Lo scorso 10 novembre, dopo un batti-e-ribatti con il tribunale, il pm Andrea Padalino ha ottenuto la custodia cautelare in carcere. Ma le manette non possono ancora scattare e i cinque superstiti della compagnia, quindi, per il momento restano formalmente indagati a piede libero.

Tre di loro sono agli arresti domiciliari (due a Pisa e uno a Varese) a seguito di una condanna per droga emessa da un giudice toscano. Uno è stato espulso il 19 agosto dello scorso anno per decisione del Ministero dell’Interno. Il quinto, che ancora risulta domiciliato nel centro storico di Torino, è senza pendenze.

Il “congelamento” dell’arresto non è il frutto di un cavillo, di un errore giudiziario o di un chissà quale ricorso pretestuoso. E’ il processo a funzionare così. Siccome l’ordinanza è stata emessa da un tribunale del riesame, la difesa ha tempo dieci giorni (a partire dal 10 novembre, data di deposito in cancelleria) per ricorrere in Cassazione.

Se la Suprema Corte darà l’ok, il provvedimento verrà eseguito. Ma nel frattempo gli indagati non potranno essere arrestati. Sarebbe diverso – per una questione in punta di diritto sulla natura degli atti processuali – se a disporre la misura fosse un gip.

Ma il gip, lo scorso 21 giugno, respinse la richiesta del pm Padalino. Il quale impugnò la decisione davanti al riesame. E’ stata una divergenza di vedute a provocare questa situazione. I sette, poi diventati cinque, sono stati attentamente monitorati dai carabinieri del Ros guidati dal colonnello Angelo Lo Russo e dal tenente colonnello Massimo Corradetti.

Sui loro profili Facebook, aperti con nomi falsi, condividevano proclami, preghiere, fotografie di miliziani armati fino ai denti. Quando i due amici morirono, li celebrarono come veri ‘martiri’ e, rispettando un’usanza del Califfato, portarono cibo in loro onore in una moschea. Ma il gip (giudice per le indagini preliminari) ha sostenuto che tutto questo non bastava per arrestarli.

I tunisini erano “pericolosi”, certo, e dovevano essere sottoposti ai “massimi controlli di sicurezza possibili”, però l’attività su internet non dimostravano a sufficienza la nascita di una cellula terroristica vera e propria. Il pm Padalino è sempre stato di parere diverso e il tribunale del riesame gli ha dato ragione:

“La costante frequentazione dei luoghi virtuali di diffusione dei contenuti dell’associazione – scrivono i giudici – è una manifestazione di volontà partecipativa”, e non serve nemmeno che ci sia “una dichiarazione formale di adesione”. Anche cliccare sul tasto “mi piace” sotto un post – aveva detto la procura – era un segnale indicativo. Ora tocca alla Cassazione.

(di Mauro Barletta/ANSA)

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