Il Papa in Asia, nel vespaio diplomatico dei rohingya

 

 


CITTA’ DEL VATICANO. – A Dacca, in Bangladesh, il primo dicembre, papa Francesco vedrà un gruppo di rohingya nel corso di un incontro interreligioso. In Myanmar, il giorno precedente, incontrerà il generale Min Aung Hlaing, capo dell’esercito che ha retto il Paese con pugno di ferro fino al 2015, esercito al quale si deve la costituzione del 2008 tuttora in vigore, fortemente antidemocratica.

Su questi due appuntamenti inseriti di recente nell’agenda papale si gioca molto dell’interesse del 21/mo viaggio internazionale di papa Francesco, il primo di un papa in Myanmar, mentre in Bangladesh andò Giovanni Paolo II nell’86, e a Dacca fu anche Paolo VI nel 1970, quando la città era in Pakistan.

Il viaggio in questo pezzo d’Asia è stato voluto da papa Francesco per andare incontro alle piccole chiese di periferia, di minoranza, immerse nella povertà dei loro Paesi. Ma certo la questione rohingya si presta a monopolizzare l’attenzione, perché le chiese locali temono che il Papa pronunciando anche solo la parola “rohingya” si infili nel vespaio di una vicenda che rischia di generare ulteriori conflitti e divisioni.

Come sia i suoi confratelli gesuiti che il suo portavoce Greg Burke hanno suggerito, conviene aspettare e stare a vedere cosa il Papa dirà o farà a proposito di questa minoranza etnica di origine musulmana che in Myanmar non ha ancora riconosciuti i diritti di cittadinanza e di cui circa seicentomila persone sono rifugiate in Bangladesh, con problemi umanitari molto seri, di violenze e malnutrizione.

Prima degli appelli di papa Francesco, molti di noi neppure sapevano chi fossero i rohingya. Nel maggio 2015 il Papa aiutò a far emergere la situazione dei circa 2.500 rohingya alla deriva, senza cibo né acqua, respinti da Indonesia, Malesia e Thailandia e di almeno cinquemila di loro dispersi nelle acque delle Andamane.

Da allora papa Bergoglio ha continuato a seguire la situazione di questa minoranza islamica, ed ha potuto essere tempestivo – e qui arriviamo alla questione più calda – nel denunciare le “persecuzioni religiose ai nostri fratelli rohingya” nell’Angelus del 27 agosto di quest’anno, cioè quando da due giorni la situazione si era ulteriormente aggravata: il 25 agosto, i militanti islamici dell’Arsa (esercito di liberazione dei rohingya) in Rakhine, la zona del Myanmar dove sono concentrati i rohingya, avevano attuato una serie di attacchi coordinati a 30 avamposti militari.

Negli scontri erano morti 12 ufficiali delle forze armate e il potente esercito birmano, detto Tatmadaw, aveva risposto con una dura contro offensiva contro i “terroristi bengali”, schierando più di 70 battaglioni per svolgere le “operazioni di sgombro” destinate a scacciare gli insorti nascosti tra la popolazione civile.

Gli analisti del Pime considerano “una strana coincidenza” il fatto che le violenze dello scorso agosto in Rakhine tra militari e esercito per la salvezza dei rohingya (Arsa) siano scoppiate il giorno dopo della presentazione da parte di Kofi Annan del rapporto finale della Commissione deputata a investigare sulle violenze e le discriminazioni ai danni della minoranza musulmana.

Prima di questo documento, l’amministrazione del Myanmar aveva osteggiato l’operato di qualsiasi commissione d’inchiesta a guida Onu. Aung San Suu Kyi, che aveva dichiarato di riporre fiducia nella sola persona di Kofi Annan, ha respinto con forza le accuse di “pulizia etnica” di numerosi rapporti internazionali e ha promesso invece di rispettare i risultati del rapporto di Annan. Proprio per questo alcuni osservatori pensano che l’operato dell’esercito abbia di mira l’affossamento del rapporto e del lavoro di riconciliazione svolto dalla ‘Signora’.

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