“Io, italiano al fronte in Siria con i curdi”

'Gabar Carlo' ora è rientrato: 'Ho portato quella causa con me' ANSA

BARI. – “Da un mese civili e miliziani curdi sono sotto attacco della Turchia e delle milizie islamiste sue alleate, il governo turco sta cercando di cancellare chi ha combattuto Daesh e lottato per una società egualitaria e antisessista, col suo esercito, il secondo della Nato, nostro alleato”.

Così racconta quanto sta accadendo in Siria ‘Gabar Carlo’, nome di battaglia di un “combattente internazionalista” italiano. ‘Gabar’, come un monte del Kurdistan turco dove 40 anni fa è cominciata la lotta di quel popolo, e ‘Carlo’ per Carlo Giuliani: lui ha 30 anni, è di origini pugliesi, e la scorsa estate ha lasciato casa, lavoro e tutto il resto per unirsi come volontario combattente alle Unità di protezione del popolo, Ypg, le milizie curdo-siriane in lotta contro l’Isis e per la rivoluzione confederale del Rojava.

Gabar è arrivato in Basur, Kurdistan iracheno, l’1 agosto 2017, per poi passare in Rojava due settimane dopo ed è tornato in Italia un mese fa. “Vorrei tornare dai miei compagni in Siria, ora però non è possibile. Ho portato la rivoluzione con me – dice – e voglio raccontarla per far sentire la voce di chi non ha voce”.

In questo momento nelle Ypg ci sono, secondo Gabar, cinque combattenti italiani, quattro uomini e una donna, sui fronti di Afrin, Deir Ez Zor e in Rojava. Gabar, invece, zaino in spalla e kalashnikov fra le braccia, era a Raqqa quando l’ex capitale dello Stato islamico è stata liberata. “Eravamo appostati di fronte all’ospedale – racconta – l’ultimo edifico nelle mani di Daesh, per trattare la liberazione dei civili ancora prigionieri”.

“Le forze siriane democratiche, Sdf, hanno rispettato il cessate il fuoco – ricorda – gli uomini di Daesh no e dopo avere più volte mandato in fumo le trattative hanno lasciato andare gli ultimi civili, chiedendo di andare a sud, condizione che non è stata accettata.

La notte fra il 13 e il 14 ottobre, l’ospedale è stato ripulito e Raqqa liberata. “Lì però si continua a morire per le mine – spiega – in strada e nelle abitazioni rimaste in piedi, dove i civili tornano e saltano in aria”.

La prima volta che Gabar ha sentito parlare dei curdi era un bambino, nel 1998, quando il leader del Pkk Ocalan era in Italia, lo aveva visto in tv, in uniforme militare. “Lo definivano terrorista, ma mio padre mi spiegava che era un partigiano e lottava per la liberazione del suo popolo”.

Quella suggestione di bambino, anni dopo, si sarebbe trasformata in impegno concreto. “Durante l’assedio di Kobane – spiega Gabar – ho capito che dovevo andare a guardare con i miei occhi la rivoluzione dei curdi, perché non riguarda solo loro. L’obiettivo della costituzione di uno stato nazionale è stato superato da quello di confederalismo democratico, di autonomia e autogoverno dai paesi in cui i curdi vivono e convivono con altri popoli, arabi, eidi, assiri, siriani, turcomanni. Non si va lì solo per i curdi, sconfiggere i regimi è una lotta che riguarda tutti e ovunque”.

Le donne, nel processo di riforma democratica, hanno un ruolo determinante. “Le unità di protezione del popolo, Ypg, sono composte da uomini e donne che combattono e godono di grande autonomia, nella società e nel movimento. Nella società mediorientale, la centralità del ruolo della donna e la lotta al patriarcato sono davvero un fatto rivoluzionario”.

“La prima cosa che ti spiegano – dice – è che il fine della lotta è l’autodifesa del popolo, c’è un’etica alla base di ogni azione, nessuno va a combattere solo per uccidere, al primo posto c’è la sicurezza dei civili”.

Fra i suoi ricordi c’è quello sul fronte di Deir Ez Zor, zona di pozzi petroliferi rimasti sotto il controllo di Daesh per giorni. “Il camioncino dei rifornimenti non poteva arrivare e scarseggiava tutto, ma quello che c’era si condivideva e con mezzo litro di tè si beveva in dieci, ora mi chiedo come fosse possibile e mi tornano in mente le parole di un compagno di Cipro, ‘quando tornerai a casa questo poco e questo sporco ti mancherà’, ed è vero”.

“Mi manca il senso di comunità – dice – il fatto di entrare in villaggi dove i civili, disperati, ci davano tutto per sostenerci perché ti accorgi che ciascuno sente sulla propria pelle il dolore degli altri e c’è un rispetto inimmaginabile e nessun individualismo. E’ questo il senso della rivoluzione, di comunità e solidarietà, che ciascuno di noi porta con sé quando torna a casa”.

Gabar traccia, infine, la differenza fra gli stranieri come lui che si uniscono alle Ypg e i foreign fighters dell’Isis. “Io non sono fuori legge per lo Stato italiano e le Ypg non sono organizzazioni terroristiche; loro sono mossi dall’odio, sono pronti a uccidere e a morire per il risentimento, lo hanno dimostrato gli irriducibili di Raqqa, foreign fighters arroccati nell’ospedale fino alla fine e non per chissà quale principio o fede, molti di loro non hanno mai letto il Corano. Per loro combattere è uno strumento di rivalsa sociale, sono inebriati dal potere di ammazzare, stuprare, ed esaltati dalle droghe”.

“I volontari internazionalisti – infine – non combattono per soldi, nel modello di società e nel movimento curdo non servono per vivere, il necessario per il quotidiano ti viene dato”. “Le Ypg – dice Gabar – compiono operazioni di difesa e respingimento del nemico, di ricognizione e assalto per liberare porzioni di territorio, la guerra è per lo più tattica, non è azione continua, è fatta di noia e terrore”.

(di Maria Pia Garrinella/ANSA)

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