Brexit, la sfida di Corbyn: “Gb resti in unione doganale”

Theresa May e Jeremy Corbyn.
Theresa May e Jeremy Corbyn. (ANSA/AP Photo/Kirsty Wigglesworth, pool)

LONDRA. – Jeremy Corbyn lancia la sua sfida per provare a mettere all’angolo Theresa May sulla Brexit e apre le porte a una Gran Bretagna destinata – nella visione riveduta e corretta del Labour – ad aderire ad una nuova unione doganale dopo il divorzio dall’Ue. Una svolta a cui la premier risponde a muso duro, ma che in effetti minaccia di far esplodere le divisioni in casa Tory. E, chissà, affossare lo stesso governo.

Corbyn sceglie Coventry, storica roccaforte industriale della working class d’Inghilterra, per piazzare il colpo. Debitamente annunciato. La Brexit, dice rivestendosi di pragmatismo, non deve “inevitabilmente significare una sventura per il nostro Paese”. Il risultato del referendum non si tocca, assicura, rivolgendosi a una base tutt’altro che compattamente ‘remainer’. Ma “il lavoro e il futuro delle persone vanno messi prima delle fantasie ideologiche” dei ‘brexiteers’.

Di qui la proposta, finora indicata dalla sua piattaforma solo come un’opzione tendenzialmente transitoria: un prossimo governo a guida Labour, è la promessa, s’impegna a “negoziare un nuovo accordo di unione doganale fra Regno Unito e Ue per garantire che non vi siano dazi e non vi sia alcuna necessità di un confine hard” fra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda.

Il vecchio alfiere della sinistra laburista, sempre più disinvolto nei panni di candidato potenziale a Downing Street, non rinnega il proprio passato di voce critica verso “i dogmi del libero mercato” attribuiti anche a Bruxelles. Ma spiega che “euroscettico è diventato sinonimo di anti-europeo”, e che lui anti-europeo non vuol essere.

Certo, resta qualche ambiguità che gli vale le recriminazioni dell’ala più liberal del suo partito e di quanti sognano la ‘rivincita’ in un secondo referendum. Lui invece parla di “una unione doganale” da negoziare “su misura”, non di quella che c’è. Mentre sul mercato unico si limita a evocare “una forte relazione” senza ostacoli tariffari, ma da fuori, e rivendicando “esenzioni” ad hoc per potersi sganciare dalle “direttive sulla concorrenza nei servizi pubblici” e “fermare l’ondata di privatizzazioni e outsourcing che consente d’importare lavoratori sottocosto dall’estero”.

La Confindustria britannica, pur agli antipodi sul dossier privatizzazioni, gli apre tuttavia un’inedita linea di credito, riconoscendogli di voler “salvare posti di lavoro”. E, in ogni modo, la distinzione con i Tories è segnata. Superata la fase di transizione (durante la quale Corbyn accetta che la Gran Bretagna debba restare sia nell’unione doganale sia nel mercato unico “con le regole attuali”), l’obiettivo è quello di confermare comunque “una base comune di diritti, standard e tutele”. E di dare priorità ai solidi legami europei rispetto agli auspici di accordi di libero scambio con Paesi terzi, cavallo di battaglia dei ‘leavers’.

La replica di Theresa May è secca quanto irritata, in attesa del suo nuovo discorso-manifesto di venerdì. La Gran Bretagna non resterà “in alcuna forma di unione doganale”, oltre a uscire dal single market, fa dire la premier a un portavoce anche per rassicurare i ‘falchi’ (che da Boris Johnson a David Davis accusano Corbyn di “vendere fumo”, di “tradire” gli elettori, di voler “cinicamente sabotare la Brexit” e trasformare il Regno “in una colonia dell’Ue”).

Ma rischia di esporsi, sul fronte opposto, alla sponda che la mossa laburista chiaramente offre a un emendamento pro-unione doganale già preannunciato ai Comuni da una pattuglia di Tories ribelli. Emendamento che, se approvato, potrebbe significare crisi ed elezioni.

(di Alessandro Logroscino/ANSA)

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