“Com’eri vestita?”: a Milano in mostra abiti contro la violenza

I vestiti delle sopravvissute per sfatare gli stereotipi

MILANO. – La violenza sessuale non può essere evitata cambiando abito: lo rende evidente, più di mille parole, la mostra allestita alla Casa dei diritti di Milano ‘Com’eri vestita?’ dove i vestiti esposti – un pigiama, una tuta, un jeans e una maglietta – rappresentano simbolicamente quelli indossati durante la violenza e sono accompagnati da brevi racconti delle donne che l’hanno subita.

“Eravamo al mare, cercavo l’amore, il primo amore, ma tu mi hai giudicato per come ero vestita e ti sei sentito autorizzato”: le parole scritte da una sopravvissuta a una violenza, sono la miglior risposta all’immancabile domanda “Cosa indossavi? Com’eri vestita?”, che “colpevolizzano chi subisce violenza”, come spiega Francesca Scardi, terapeuta e fondatrice della cooperativa Cerchi d’acqua, organizzatrice della mostra.

L’esposizione – aperta fino al prossimo 21 marzo – trae ispirazione dalla poesia “What I was Wearing” di Mary Simmerling, che Mary Wyandt-Hiebert, docente alla University of Arkansas, e da Jen Brockman, direttrice del Sexual Assault Prevention Center presso la University of Kansas, hanno sviluppato nel 2013 in un’istallazione artistica dal titolo “what were you wearing?”, che ha girato i college americani per sfatare gli stereotipi sulla violenza sessuale.

In mostra “ci sono alcune storie che arrivano dalle colleghe americane, le parole delle ragazze che subiscono violenza all’interno dei campus, cui noi – racconta Scardi – abbiamo abbinato dei vestiti in base ai loro racconti. Poi abbiamo chiesto alle donne che frequentano i nostri gruppi di auto aiuto se avevano voglia di partecipare a questa mostra, anche perché per loro poteva essere un pezzo importante di un percorso di elaborazione del trauma, e ci hanno mandato brevi frasi in risposta alla domanda ‘com’eri vestita?’.

L’idea della mostra – sottolinea – è dire che non è il vestito che genera la violenza, anche perché ci sono jeans e magliette, vestiti da signora, pigiami e purtroppo anche costumini da bambina. Nelle situazioni dove la violenza era avvenuta anni prima, le donne hanno fatto una descrizione del vestito che indossavano e noi lo abbiamo ricostruito, in altre situazioni sono state loro a portare dei vestiti collegati alla loro storia”.

L’esigenza più forte, rispetto alla mostra americana, è stata quella di raccontare la realtà italiana: “nella maggioranza delle situazioni che vediamo – spiega la terapeuta – le violenze avvengono all’interno della coppia o della famiglia. Come cerchi d’acqua, dal 2000 al 2016 abbiamo seguito oltre 10mila situazioni di violenza, 595 solo nel 2017, con una media di 600 donne all’anno a Milano e provincia”.

La cooperativa, nata con l’obiettivo di dare uno spazio libero da giudizio, anonimo e gratuito per l’elaborazione del trauma, offre anche consulenze legali, ma “il pezzo più grosso è la psicoterapia, con 7 gruppi di auto aiuto per donne che subiscono maltrattamenti”.

E’ in questo percorso che si è inserita la mostra, che a livello psicologico “riattiva la riflessione e ha un portato positivo, tanto che alcune donne ci hanno detto: ‘vi consegniamo i nostri contributi, così ce ne liberiamo’”. La speranza, sottintesa, è che anche un progetto come questo – già richiesto in altre città e visitato da diverse scuole – contribuisca ad avviare il cambiamento culturale di cui c’è tanto bisogno perché “le donne sono stufe di sentirsi dire ‘ma com’eri vestita?'”.

(di Gioia Giudici/ANSA)