Tra un anno la Brexit, May promette “un futuro radioso”

Un funzionario ammaina la bandiera inglese al Parlamento Ue. Brexit
Un funzionario ammaina la bandiera inglese al Parlamento Ue.

LONDRA. – 365 giorni all’alba. O al crepuscolo, a seconda dei punti di vista. Il conto alla rovescia per la Brexit entra nell’ultimo anno, destinato a consumarsi il 29 marzo del 2019, ossia alla data di scadenza fissata nero su bianco per il divorzio formale di Londra da Bruxelles.

E la premier conservatrice Theresa May coglie l’occasione per un tour de force di 12 ore attraverso tutte le nazioni del Regno (Inghilterra, Galles, Scozia, Irlanda del Nord) utile a lanciare un appello a serrare le file ma anche a tornare a sventolare la bandiera isolana del ‘right or wrong, my country’, promettendo al Paese niente meno che “un futuro luminoso”.

Rafforzata dal ruolo guida che il tenebroso caso Skripal le ha offerto nella risorgente Guerra Fredda con Mosca, May ha provato oggi a gettare il cuore oltre gli ostacoli (e sono molti) che ancora si proiettano sui negoziati con l’Ue e sull’avvenire.

Da nord a sud del Regno ha predicato ottimismo assicurando di voler portare il “Paese unito” nella Brexit, nonostante le divisioni evidenti che lo attraversano tuttora, ed evocando l’addio al club europeo come una fase di “opportunità”, non solo di sfide. Convinta del resto di poter chiudere “un buon accordo” di partnership con i 27, specie nelle “relazioni commerciali”, dopo le recenti intese sulla transizione e in attesa di sciogliere l’intricato nodo del confine irlandese. Non solo.

Intervistata dalla Bbc, non ha esitato neppure a recuperare uno degli argomenti più controversi della campagna referendaria brexitista condotta nel 2016 in prima fila dai suoi attuali ministri Boris Johnson e Michael Gove: quello stando al quale “lasciando l’Unione” ci saranno a regime più risorse da spendere nel bilancio nazionale.

“Ovviamente – le sue parole – non dovremo più versare grandi somme di denaro (a Bruxelles), quindi avremo più soldi disponibili per le nostre priorità, come l’Nhs (la sanità pubblica) e le scuole”. Il tutto sullo sfondo della promessa, di sapore marcatamente euroscettico, di restituire presto ai britannici “una nazione indipendente”.

Toni e aspettative che gli oppositori non condividono affatto. Non i laburisti, che se non altro invocano una Brexit più soft sottolineando per bocca del cancelliere ombra John McDonnell le spaccature in casa Tory, le sconfitte subite in parlamento dal governo sulla legge quadro, il rischio del “caos”.

E meno ancora una fetta consistente del business, rinfrancata solo in parte dal via libera a una transizione post divorzio che manterrà in sostanza inalterato lo status quo, ma non oltre il 31 dicembre 2020.

Per non parlare dei liberal alla Tony Blair, che a Londra fa il controcanto alla premier in carica nell’ennesima kermesse pro-Ue e opina che la Brexit può essere “ancora fermata”, magari con “un secondo referendum”: affidando le sue speranze all’anima più eurofila (e meno corbynista) del Labour, ma soprattutto alla fronda dei ‘conservatori moderati’, che non intendono “consegnare Downing Street a Jeremy Corbyn” a Brexit sigillata.

I giornali a loro volta si dividono: se il progressista Guardian sfodera in un editoriale una sorta di sos sollecitando “un cambio di rotta prima che sia troppo tardi”, l’euroscettico Daily Express pubblica un sondaggio ComRes – in controtendenza con altri dei mesi scorsi – a credere al quale ben il 65% dei britannici appare estenuata e un referendum bis non lo vuole.

Gratificato dall’improvvisa aura di protagonista della nuova linea dura anti-russa dell’Occidente, il ministro degli Esteri Boris Johnson, ‘brexiteer’ in capo del governo, ritrova intanto tutta la baldanza. E coglie l’occasione di un pranzo in onore del Commonwealth in un rinomato ristorante indiano londinese per riproporre lo slogan d’una “Global Britain” proiettata verso un immaginifico orizzonte (vagamente imperiale) ben più vasto dell’Ue: “2,4 miliardi di persone – sentenzia – sparse fra Mombasa e Montreal, fra Yaoundé e Wellington”.

Anche se tutte insieme non assommano che una frazione dell’interscambio fra il Regno Unito e la vecchia Europa continentale.

(di Alessandro Logroscino/ANSA)

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