Via il premier armeno, vince la rivoluzione di velluto

MOSCA. – In Armenia la ‘rivoluzione di velluto’ promessa da Nikol Pashinyan alla fine ha trionfato. E senza spargimenti di sangue. Un piccolo miracolo che viene considerato già come un terremoto nello spazio ex sovietico. Sulle prime, infatti, quando il leader della piccola fazione di opposizione Elk aveva promesso il “crollo del regime” con metodi assolutamente pacifici, in pochi ci avrebbero scommesso.

Eppure, 10 giorni (e centinaia di fermi) dopo, Serzh Sargsyan ha dato le dimissioni. “Eseguo il vostro volere, auguro la pace al nostro Paese”, ha detto Sargsyan rivolgendosi ai manifestanti che per l’ennesima giornata hanno bloccato le strade di Yerevan.

Non è chiaro quando l’ex presidente e leader del partito Repubblicano, perno della politica armena da oltre un decennio e tra i più fidi ‘clientes’ di Vladimir Putin, abbia capito che la partita era ormai persa, se nel corso del botta e risposta con Pashinyan in diretta tv, interrotto bruscamente da Sargsyan all’ennesima richiesta di dimissioni senza appello, oppure quando si è diffusa la notizia che per le strade della capitale erano scesi anche i militari in divisa.

Eppure, per 24 ore, si è temuto il peggio: domenica, dopo il botta e risposta televisivo, la procura generale ha disposto i fermi di Pashinyan – nonché di altri due leader dell’opposizione, Ararat Mirzoyan e Sasun Mikaelyan – e ha iniziato a farsi largo l’ipotesi dello stato d’emergenza, prerequisito per schierare i soldati nelle città. Poi la ‘de-escalation’ – se spontanea o eterodiretta, è ancora presto per dire.

In seguito il numero due del partito Repubblicano, il primo vice premier Karen Karapetyan, visita in cella Pashinyan. I due parlano e qualche ora dopo i fermi non vengono convalidati, su richiesta dello stesso governo. Quindi le dimissioni di Sargsyan e la nomina a premier ad interim dello stesso Karapetyan. Insomma, una mossa che appare ‘telefonatissima’, forse l’unica possibile per non trasformare il velluto in fil di ferro.

Non a caso da Mosca sono arrivate parole di elogio per la “grandezza dimostrata dal popolo armeno” (Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri) ma anche di cauto avvertimento da parte del capo della commissione Esteri della Duma, Leonid Slutsky (“l’Armenia resterà comunque un alleato strategico della Russia”).

Il Cremlino già se n’era lavato le mani, bollando il tutto come “un affare interno dell’Armenia”. Ma non è esattamente così. Yerevan, persa la Georgia, è l’ultimo tassello nel Caucaso meridionale davvero fedele, tant’è vero che milita nella fila dell’Unione Economica Euroasiatica, la confederazione voluta da Putin per mantenere l’egemonia russa nell’area ex sovietica (e possibilmente oltre). Se l’Armenia dovesse decidere di cambiare i ‘fondamentali’, il clima da festa della democrazia potrebbe cambiare bruscamente.

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