Addio Ermanno Olmi, gigante che diede voce agli ultimi

Ermanno Olmi. ANSA/CLAUDIO ONORATI

ROMA. – Ha scelto un giorno di primavera per andarsene quieto quieto, senza eroismi, senza eredità, nel suo altipiano di Asiago, tra quei boschi e quei monti che aveva amato appassionatamente, con la moglie vicino, con i figli amatissimi nel pensiero.

Così se ne va Ermanno Olmi, il gigante della montagna, il regista degli ultimi, una delle voci più pure e originali della cinematografia italiana, erede consapevole del neorealismo ma voce solitaria nella nostra cultura, così come Pasolini a cui è stato spesso accostato nonostante le profondissime differenze estetiche e ideologiche.

Nato il 24 luglio 1931 a Bergamo, è stato acclamato in patria e all’estero, ha vinto due volte il Leone d’oro (quello alla carriera nel 2008), con la Palma d’oro del 1978 per “L’albero degli zoccoli” è diventato una star internazionale, con “Il mestiere delle armi” (2001) ha scritto una delle pagine più alte del pensiero cinematografico moderno. Eppure è sempre stato uomo umile e sorridente, cattolico senza spocchia, pensatore contadino come amerebbe che di lui ci si ricordasse.

Ha sperimentato la povertà (figlio di ferroviere è rimasto orfano durante la seconda guerra), il lavoro in fabbrica (alla Edison Volta che ricordava sempre come scuola di vita e di mestiere), la malattia che all’inizio degli anni ’80 lo avrebbe segnato per sempre, il successo e il fallimento (come quando “Il segreto del bosco vecchio” con Paolo Villaggio fu stroncato da molti appena dopo il trionfo nel 1988 del precedente “La leggenda del santo bevitore”).

E’ stato maestro (all’inizio degli anni ’80 fonda il laboratorio “Ipotesi cinema” a Bassano del Grappa per sostenere i giovani autori nella ricerca e nel documentario) e discepolo (l’ultimo suo lavoro, “Vedete? Sono uno di voi” nel 2017, è uno splendido atto d’amore per il Cardinale Carlo Maria Martini).

Ermanno Olmi era nato a Bergamo (ma trascorse l’intera infanzia a Treviglio) il 24 luglio del 1931. Dopo il liceo, per studiare e per lavorare, si trasferisce a Milano iscrivendosi all’Accademia d’arte drammatica e trovando impiego, grazie alla madre, come fattorino alla Edison.

In breve si trova a guidare un inedito reparto di attività ricreativa per i dipendenti e comincia a sperimentare la sua passione per il cinema girando brevi documentari industriali per documentare il lavoro della grande azienda di energia elettrica. Alla fine tra il 1953 e il 1961 girerà oltre 40 documentari che fissano bene i caratteri del suo cinema: attenzione agli individui e alle loro storie di lavoro e fatica, narrazione senza retorica, sommessa commistione tra documentazione della realtà e fantasia nel tracciare storie e personaggi.

L’approdo naturale sarà il cinema lungometraggio con “Il tempo si è fermato”, manifesto e capolavoro del 1959 che precorre il rinnovamento del cinema italiano pedinando con discrezione autobiografica l’amicizia tra uno studente e il guardiano di una diga. Due anni dopo, con una cooperativa di appassionati tra cui l’amico Tullio Kezich (la società di produzione “22 Dicembre”), firma “Il posto”, emblema di un cinema che non si distacca mai dalla realtà quotidiana narrando la ricerca del primo impiego da parte di due ragazzi.

Il film vince il premio della critica alla Mostra di Venezia e fa di Olmi un cineasta a pieno titolo, anche se (a differenza di molti della sua generazione) Olmi non si trasferirà mai a Roma e non apparterrà mai a una delle storiche “famiglie” di Cinecittà e dintorni.

La sua filmografia è asciutta per quanto riguarda il lungometraggio tradizionale (appena una ventina di titoli per il cinema), ma è fittissima di imprese innovative tra il documentario e la televisione. Oggi vale la pena di ricordare almeno “I recuperanti” (girato nel ’69 per la Rai, tra quelle montagne che poi diventeranno la sua casa e il suo rifugio), “Un certo giorno” (dello stesso anno), “La circostanza” del 1974.

Quattro anni dopo con “L’albero degli zoccoli” (ancora prodotto dalla Rai) vince la Palma d’oro a Cannes e poi il Premio César. Affresco storico quasi manzoniano della civiltà contadina padana, il film farà di lui il cantore della memoria e del mondo rurale, ma in realtà il suo cinema ha una prospettiva universale e ben più ampia comne confermano il successivo “Camminacammina”, il Leone d’oro “La leggenda del santo bevitore” (1968, da un racconto di Joseph Roth sceneggiato con Tullio Kezich) l’allegorico “Lunga vita alla Signora” (1987), e due capolavori indimenticabili come “Il mestiere delle armi” (2001) e l’ultimo “Torneranno i prati” (2014), entrambi dedicati alla follia della guerra ed entrambi di diritto nella grande storia del cinema mondiale.

Dal 2007 aveva dichiarato di voler abbandonare il cinema a lungometraggio per concentrarsi solo sul documentario, ma così non fu fino all’ultimo. Eppure è proprio nel rapporto senza mediazioni con l’uomo e con la natura che Ermanno Olmi si riconosceva. Ed è tra quella natura ancora incontaminata dei boschi di Asiago che ha atteso col sorriso sulle labbra la fine.

L’etichetta di cristiano gli piaceva, quella di regista dei cattolici molto meno e non gli si addiceva. Anzi, il suo carattere lombardo e schivo, aveva piuttosto qualcosa della tradizione calvinista. Illuminata però da una fede nell’uomo e da un sorriso generoso che resta nella memoria di chiunque lo abbia conosciuto. Come desiderava, in linea con una vita piena di affetti e amicizie ma riservata, i funerali di Olmi si svolgeranno in forma strettamente privata.

(di Giorgio Gosetti/ANSA)

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