Manfredi Bosco, la passione per la vera cucina italiana

Manfredi Bosco ai fornelli
Presidente della “Delegazione Spagna” della Federazione Italiana Cuochi spiega alla “Voce” gli obiettivi dell’iniziativa presentata ufficialmente nel corso di “Passione Italia”. La cucina tradizionale del Belpaese, le ricette della nonna, i prodotti e gli aromi italiani, le aspirazioni e i progetti.

MADRID – Un po’ come il prezzemolo. Non c’è angolo del mondo in cui la gastronomia italiana non sia presente. E Madrid non fa eccezione. Sono tanti, tantissimi i ristoranti italiani che si propongono al pubblico con menu variatissimi, a volte conditi da nomi ermetici, altri che ricordano le ricette della nonna. Spesso però, solo dopo essere caduti ingenuamente nella loro rete, ci si accorge che d’italiano non hanno altro che il nome. Come distinguere il vero dal contraffatto, l’originale dal falso?

E’ nata ufficialmente da qualche settimana la “Delegazione Spagna” della Federazione Italiana Cuochi, orientata alla difesa della gastronomia del Belpaese e, quindi, anche del “Life style” italiano. Incontriamo il suo presidente, Manfredi Bosco, in un piccolo bar nel cuore del quartiere di Goya. A lui chiediamo com’è sorta l’idea di creare una Delegazione della Federazione in terra spagnola

– A Madrid, come in tantissime parti del mondo, manca la conoscenza dell’autentico prodotto italiano – ci dice subito – . E’  l’annoso problema dell’italian sounding, di cui si parla in tutto il mondo. Il pomodoro pelato, la mozzarella, nessuno sa più cosa bene siano. E’ un fenomeno che nuoce ai veri ristoranti italiani; arreca un grosso danno alle imprese italiane e all’immagine stessa dell’Italia. La Federazione Italiana Cuochi da cinquant’anni si preoccupa di tutelare la professione del cuoco e di promuovere l’autentica cucina italiana. Sulla tutela del cuoco, purtroppo – sorride ironico ma anche critico -, ancora non ha fatto granché. Continuiamo a lavorare, anche in Italia, 10, 12 ore al giorno. Però, sul tema della promozione dell’autentica cucina italiana, bisogna riconoscere che si è impegnata a fondo attraverso eventi, concorsi, campionati del mondo della cucina, promozione dei “doc” e dei consorzi del parmigiano, del grana, del prosciutto di Parma… 

Sostiene che in Spagna uno degli obiettivi è “certificare gli autentici prodotti italiani e i ristoranti che se ne avvalgono nella elaborazione delle loro ricette”. 

– Insomma – prosegue -, una sorta di “controller” su quella che è l’offerta gastronomica in Spagna. C’è tanto da fare. Bisognerà creare gruppi di lavoro; sensibilizzare tutta la ristorazione spagnola affinché, se si vuole chiamare italiana, rispetti alcune regole.

 

– Molti cuochi italiani in Spagna?

– Si

– Qualificati? Voglio dire, professionisti seri o solo persone che, per una casualità della vita, si trovano ad esempio a dover gestire una pizzeria senza avere idea di come si prepara una pizza?

– Purtroppo – ammette – c’è l’uno e l’altro. Conosco tantissimi professionisti italiani. Siamo quasi in cinquanta nella nostra Delegazione. Abbiamo appena iniziato. Sono italiani che fanno un lavoro serio  e che vendono un prodotto di qualità: una buona pasta, una buona carne. Ricette autentiche realizzate con i nostri prodotti. Torniamo al discorso dell’italian sounding. Ci sono grossi gruppi spagnoli, messicani e di altre nazioni che vendono il falso italiano. Può essere buono o no. Non importa. Il punto è che si crea confusione. Si pensa a volte che un ristorante col nome italiano non può che essere italiano. Non sempre è così. E questo va spiegato, senza toglier nulla a chi comunque fa bene il proprio lavoro. Credo sia necessario sensibilizzare le persone; spiegare loro cosa è un autentico prodotto italiano

– Come capire che non è autentico? Ad esempio il turista, come fa a rendersi conto che un ristorante col nome italiano in realtà di italiano ha ben poco?

In un primo momento, qualche anno fa – ci spiega -, il Ministero degli Esteri iniziò una campagna certificando questi posti con il marchio di Ospitalità Italiana. Sono ristoranti che, per le loro ricette, usano i nostri prodotti per un 70 per cento. Anch’io, alla fine, devo dire che lavoro con prodotti spagnoli. In Spagna, su carne e pesce, caschi sempre bene. Per la verdura è più complicato. La Spagna ama chiamarsi il giardino d’Europa. Però, poi, è tutto prodotto in serra. Le verdure coltivate in serra hanno sapori molto diversi. In Italia strutture chiuse per la coltivazione, ci sono e non ci sono. Insomma, sono poche. Si produce molto di stagione. Il resto s’importa dalla Siria, dal Libano, dal Nord Africa.

– Mio nonno i prodotti fuori stagione non li comprava

– Neanch’io – afferma categorico -. Costano di più e non sono buoni. Questa è la politica. Come Delegazione della Federazione siamo in costante contatto con un’impresa privata che si chiama Farmidable che cerca di promuovere gruppi di consumo privati, di ristoratori, per l’acquisto di verdure da coltivatori che stanno a un raggio di 20 Km da Madrid. Quindi prodotti di stagione ed ecologici. Questo è senz’altro un altro nostro obiettivo: promuovere l’acquisto di verdura di questo tipo. Così si da un plus alla qualità del prodotto finale. Ci stiamo attivando in questo senso. 

– E la certificazione degli autentici ristoranti italiani?

– Il tema è più delicato – ammette -. C’è già il ministero con un suo progetto. C’è da vedere se vuole comunque continuare a spendere per portarlo avanti. E’ un progetto senz’altro molto valido. Si dava una targa al ristorante che garantiva l’utilizzo del sessanta, settanta per cento del prodotto italiano… 

– Fatte le dovute distanze, per un ristorante sarebbe come avere la stella Michelin.

– Certo.

– Il ministero potrebbe chiedere la collaborazione della Federazione.

– Siamo professionisti del settore – commenta -. Possiamo entrare in una cucina e vedere quali prodotti si usano. In questo possiamo aiutare. Un’altra sfida della Federazione sarà sicuramente la lotta allo spreco alimentare. Quindi, corsi di cucina, e tutto ciò che può contribuire a promuoverla. Pensiamo realizzare attività con istituzioni italiane, con imprese spagnole…

– Per quanto si voglia lavorare senza sprechi, c’è sempre qualcosa che avanza. Non si è pensato di donare quel cibo?

– Ci sono però problemi di igiene – afferma -. Il prodotto va regalato in un certo modo. Una soluzione si può trovare. Abbiamo idee, progetti ma i gruppi di lavoro non sono ancora stati creati. D’altronde, la nostra Delegazione della Federazione in Spagna esiste da soli due mesi. L’abbiamo presentata ufficialmente nel corso di Passione Italia, la manifestazione promossa dalla Camera di Commercio Italiana per la Spagna e dalla nostra Ambasciata. Ci sono degli obiettivi sull’autenticità del prodotto nella cucina italiana, c’è la lotta allo spreco alimentare, c’è il proposito di certificare gli autentici ristoranti italiani. Si vuole collaborare con la Camera di Commercio Italiana in Spagna nel progetto Cento per Cento Autentico che è già in essere e che vuole garantire ai clienti l’impiego di prodotti originali italiani e, naturalmente, la produzione di ricette autentiche. Ci sarà spazio anche per la cucina regionale italiana.  Stiamo anche cercando di togliere un po’ questa etichetta di “pasta – pizza”. Non siamo solo “pasta – pizza”. Mangiamo verdure, pesce e carne. La nostra è una dieta completa.

– Quanto danno fanno alla cucina italiana i grandi consorzi che hanno trasformato la cucina italiana in un fast-food?

– Tantissimo, secondo me – commenta -. Offrono un cibo che magari è buono per il cliente straniero…  ma danno una immagine erronea di quello che è il vero piatto italiano. Il nostro è slow-food. Lo slow-food credo che sia una invenzione tutta italiana, un modo di vita. C’è il tempo di attesa di un piatto,  c’è una preparazione dietro. Questi fast-food ti presentano un piatto di carbonara fatto in una data maniera. Il cliente poi va a un vero ristorante italiano, prova una vera carbonara e non gli piace. Non è abituato al gusto di un guanciale di maiale, di un pecorino di qualità.

L’antitesi dello stereotipo dello “Chef”

Bosco non rappresenta certo lo stereotipo del cuoco. Ovvero, è l’antitesi del “Chef” come ce lo hanno presentato sempre le grandi produzioni Hollywoodiane: fisico eccessivamente esuberante, un po’ grassottello, dal ventre prominente; guance paffute e baffetti. Bosco non ricorda affatto Gerard Depardieu nel film Last Holliday, anzi… Col suo fisico asciutto e la barba ben curata, si potrebbe confondere semmai con l’intellettuale moderno, il giovane ricercatore o il professore universitario.

– Come si è iniziato in questo mondo un po’ magico, fatto di piccoli segreti e ricette particolari…

– Tutto è cominciato con un viaggio studio, come si chiamavano allora in Italia; una vacanza studio in Inghilterra per imparare la lingua. Avevo vent’anni circa. A scuola avevo studiato il francese. Non conoscevo una parola d’inglese. Iniziai a lavorare come lavapiatti. Devo premettere che la passione per la cucina, in casa, c’è sempre stata. Io, poi, ero sempre quello che organizzava cene con gli amici. Mi preoccupavo dell’accurata scelta dei prodotti. Vengo da una famiglia benestante che ci ha tenuto molto al cibo. Mio nonno, che viaggiava per lavoro, sempre portava le prime prelibatezze. Mi raccontava mio padre che negli anni ’60 portava la mozzarella di bufala dalla Campania e dalla Calabria perché, dove abitavamo, era impossibile trovarne. Ci unisce un grande amore per il cibo e per i prodotti regionali italiani e la mia famiglia ha anche una lunga tradizione nella produzione di liquori. Quindi, con un gusto particolare per le buone ricette, il buon cibo e il buon liquore.

 

 

 – Una famiglia dal palato raffinato, quindi

– Sì, certamente. Una famiglia di buon palato. Mio padre era un appassionato di cucina. Il fine settimana, che era libero, cucinava lui. E io ero lì. Osservavo e imparavo. A volte, facevamo ricette insieme. A me piaceva tanto ma non avrei mai pensato di fare il cuoco nella vita.

– Cosa hai studiato, quali erano i tuoi progetti?

Ci dice che ha frequentato il liceo classico e poi un po’ di università.

– Pensavo di lavorare nel mondo delle istituzioni – commenta -. Volevo conoscere le lingue e muovermi nell’ambito della diplomazia. Fu per questo che andai in Inghilterra… per imparare la lingua. E cominciai col fare il lavapiatti. Le cose funzionavano. Guardavo quello che facevano gli altri. Aiutavo. Insomma, è stato un evolversi della professione sul campo abbastanza rapido. Bisogna dare merito agli inglesi che sono molto…

– Certo, la cucina inglese…

– No, non mi riferisco alla cucina – corregge – ma alla meritocrazia nel campo del lavoro. Questa, in Inghilterra, funziona. In generale, funziona nei paesi anglosassoni. Se sei bravo ti fanno lavorare. Era il 2001. Avevo vent’anni, ventidue anni. E così da lavapiatti passai ad aiuto-cuoco. Poi, ci fu l’attentato alle Torri Gemelle. La mamma, tipica mamma italiana, mi disse accorata: “Torna, che sto in pensiero”. Io ho fatto due conti. Mi sono detto: “Voglio fare il cuoco. E’ una professione che mi piace”. Sono italiano. Fammi vedere come funziona la professione in Italia. Tornai e immediatamente cominciai a cercare dove collocarmi. Feci uno “stage” al Four Season Hotel, uno dei migliori alberghi di Milano. Fu lì dove praticamente diventai cuoco. Al Four Season Hotel mi promossero ad aiutante di cucina. E poi mi mandarono al Capri Palace Hotel, un albergo 5 stelle di lusso con una stella Micheline. Il livello di ristorazione era molto elevato ed esigente. Il carico di lavoro, molto alto. Per due mesi, credo, chiamai quasi tutti i giorni mio padre dicendo che non ce la facevo più, che sarei tornato a casa. Però ho tenuto duro e alla fine mi sono trovato con una professione in mano. Beh, diciamo che con l’inizio della professione in mano.

Tradizione, regole, improvvisazione ed estro

– Nella cucina quanto c’è di tradizione, di regole, di improvvisazione e di estro? 

Non ha dubbi. Immediatamente afferma che “Lavorare in un ristorante 5 stelle come cuoco non da spazio per l’inventiva”. E spiega il perché:

– Lo Chef cucina il cibo; lo Chef confeziona il piatto. Tu lo devi riprodurre identico. Chiaro, ora faccio lo Chef di cucina. Quindi, confeziono i miei piatti. Personalmente ho una attitudine, un interesse, un rispetto per il cibo tradizionale, per la cucina tradizionale. Ora, per rispondere alla domanda… prima dell’inventiva e dell’estro c’è un 80 per cento di cucina tradizionale. Quindi, conoscendo l’80 per cento anzi conoscendo il 100 per cento della cucina tradizionale, si può dare di più e trasformare il piatto. Ma resta il rispetto per le tecniche di cottura, per l’utilizzo dei prodotti, per l’attenzione a non trasformare eccessivamente la ricetta. Con questo voglio dire che senza una base di cucina tradizionale non si può essere creativi. I sapori, alla fine, sono quelli; è il piatto della nonna. Il piatto della nonna lo puoi trasformare, lo puoi fare un po’ più carino, un po’ più sofisticato ma il sapore è quello. Deve essere quello.

La vita del cuoco è sacrificata. Si torna a casa molto tardi e, se si vogliono i migliori prodotti, ci si sveglia molto presto per essere i primi ad arrivare al mercato e scegliere i più freschi. 

Non si hanno orari… A vent’anni come si concilia la passione per la cucina con il desiderio di trascorrere una serata in compagnia di amici o con la fidanzata? Bosco non ha dubbi: “a vent’anni si ha il fisico per farlo”. 

– Adesso – commenta – non potrei. Ma a vent’anni sì. Si riesce gestirlo. Hai un tempo di recupero molto più breve. Quindi alla fine del servizio, a mezzanotte o all’ora che sia, esci, vai con gli amici, fai le ore piccole e magari torni a casa alle 6 del mattino. Alle 10, alle 11 torni a lavorare di nuovo. Puoi farlo perché hai vent’anni. Una volta a settimana si concilia così. A volte non lavori un mese o lasci il lavoro. Mi è capitato quando ero giovane. In particolare, in Inghilterra, dove c’era… dove c’è como qui in Spagna, tanta offerta di lavoro. A volte trovi una signora, una signorina… e allora dici: “Questo mese va così”. Lasci tutto e via. Insomma, il tempo si gestisce con forza fisica e d’animo. Dormi solo tre ore e non ne risenti. Ora che sono più maturo; che ho famiglia, devo ammettere che la vita del cuoco è difficile. Devi trovare piacere nel cucinare; devi avere la soddisfazione personale che non è, poi, legata tanto aldenaro che guadagni quanto al dare piacere alle persone. Regalare al cliente il piacere di mangiare. Fare in modo che, nell’assaggiare i tuoi piatti, ricordi quelli della nonna. Insomma, devi saper creare sensazioni. Dopo il servizio, spesso, giro tra i tavolini. Domando se le cose vanno bene. E i commenti ti appagano.

– Cosa accade quando ti rechi in un ristorante e ti rendi conto che il piatto chiesto non è quello che in realtà volevi o che ti era stato offerto? A uno Chef certi dettagli non scappano…

– Riconosco il problema e mi importa poco – ci dice -. Giustifico il personale con gli amici, se si tratta del servizio. Sono tollerante se il cibo è buono. Se poi il cibo non è buono allora comincio ad esserlo di meno. Da cuoco, preferisco che il cibo sia buono e il servizio sia pessimo. Il cliente normalmente non è così. Vuole il servizio rapido, eccellente. E’ questa la regola. Il resto è l’eccezione che la conferma. Da professionista, ti dico che preferisco che il cibo sia buono anche se il servizio poi è deficiente…

– Se il cibo non è buono ti alzi e vai via o…

Innanzitutto, spiega, molto dipende “dallo stato d’animo e dalle persone che ho a fianco”. Poi aggiunge:

– Magari è stato l’amico a prenotare il ristorante ed allora… Dipende… ci sono varie sfaccettature.

– Hai lavorato nell’Hotel di Capri, un hotel cinque stelle che forse non ti dava una gran soddisfazione come cuoco ma sì economicamente…

– Tutte e due – ammette -. Come cuoco ho imparato tantissimo. In questi ristoranti si impara davvero tanto.

– E allora perché hai lasciato?

– Sono lavori stagionali – spiega -. Sei impiegato per sei mesi. Guadagni bene. Poi, però, d’inverno… Ho quindi preferito trasferirmi a Roma. Ho lavorato in un ristorante romano. Aveva un menù a base di pesce. Era molto elegante, molto chic. Anche lì ho imparato tanto. Facevo i primi piatti, per i quali in Italia sono molto esigenti. Lì ho imparato a fare bene la pasta. A farne tanta. A cucinare per 100 persone, con pasta cotta al momento.

Cominciare da zero

– Come mai la scelta di Madrid?

– Madrid… avevo iniziato a venirci con la mia attuale moglie – ci dice -. Avevo la fabbrica di liquori in Italia. Quindi ho cominciato a sondare un po’ il mercato di Madrid, il mercato spagnolo. Attraverso la Camera di Commercio Italiana per la Spagna ho iniziato a inviare prodotti; a venire come promotore dei miei e anche di alcuni generi alimentari della mia terra. Mi hanno chiesto di fare delle degustazioni, di preparare qualche piatto con i loro prodotti. E, per due o tre anni è andata così.  Madrid ci era piaciuta. Si viveva bene. Avevamo amici perché mia moglie già aveva vissuto qui nel 2001 e nel 2002. Abbiamo deciso di trasferirci. E’ stato come cominciare da zero. Si, avevamo gli amici, ma si è ricominciato dal nulla.

 

– Avete aperto un ristorante?

– No – afferma e con molta umiltà spiega che d’aver preferito “fare prima esperienza in ristoranti spagnoli”. 

– Volevo capire che tipo di servizio si offriva – sottolinea -. Ed effettivamente è diverso dall’Italia. Qui vai con piatti “a compartir”. Si ordinano due, tre, quattro piatti e si assaggia. In Italia, invece, ognuno ordina il suo. Ho imparato, poi, un po’ della cucina spagnola: i piatti tradizionali della cucina di Madrid, di Galicia. Ho cercato di capire i loro gusti. Insomma, ho fatto tirocinio.

– La cucina spagnola è buona…

– Si – ammette senza impaccio -. E’ una buona cucina. Rispetto a quella italiana è un po’ limitata. In Italia abbiamo una varietà esagerata. Ogni regione offre cucine diverse. Quella spagnola è comunque buona. Lo è di sapore. E’  semplice, fatta bene.

– Progetti personali?

– A settembre – ci dice con l’entusiasmo di un bambino che mostra il suo nuovo giocattolo -sarò chef di un ristorante nel centro di Madrid. Farò cucina regionale italiana. Ci sarà una proposta fissa e una del giorno con “cibo di mercato”, come dicono qua in Spagna. E sarà veramente “cibo di mercato” perché il ristorante è a 50 metri da un mercato vero. Sono giàd’accordo con il proprietario, andrò a fare la spesa al mattino presto come si faceva un tempo. Poco a poco avrò i miei fornitori che mi metteranno da parte i prodotti migliori. Sarà un progetto molto interessante. In realtà, era uno dei miei sogni: una “carta” fissa, e poi al mattino andare al mercato, prendere quel che c’è di buono o quel che uno ha voglia di cucinare. E’ il tipo di cucina che piace a me, semplice, con poco spreco, prodotti freschi, aromi della nostra terra e tanta qualità.

Mauro Bafile

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