Gb: governo May perde i pezzi, Johnson e Davis se ne vanno

Un primo piano del ministro degli Esteri inglese, Boris Johnson
Il ministro degli Esteri inglese, Boris Johnson. EPA/ANDY RAIN

LONDRA. – La Brexit assume le incongrue sembianze di un iceberg, in questa rovente estate britannica, e il governo conservatore di Theresa May rischia di trasformarsi nel Titanic. Minacciato da fratture sempre più profonde che sfociano nelle dimissioni in rapida successione di due pezzi de 90 della corrente euroscettica, David Davis e Boris Johnson, in polemica aperta con la “svolta” negoziale più soft imposta dalla premier nell’intricata partita per il divorzio da Bruxelles.

Un terremoto politico in piena regola, di fronte al quale May prova ancora una volta a resistere, rattoppando la sua compagine e dichiarandosi pronta ad affrontare il voto in parlamento su una possibile mozione di sfiducia: per chiederla servono le firme di 48 deputati del gruppo Tory, già depositate a quanto pare nero su bianco.

Il governo è comunque scosso alle fondamenta nei suoi fragili equilibri e la premier è a bagnomaria: a Downing Street chissà per quanto ancora, con l’ombra incombente del naufragio e di nuove elezioni anticipate – auspicate ad alta voce dalla rinfrancata opposizione laburista di Jeremy Corbyn – che nessuno si sente di escludere. Mentre l’Ue, per ora, fa finta di nulla: “Trattiamo con Theresa May”, taglia corto un portavoce, accennando a una mezza apertura di credito cui Jean-Claude Juncker fa sponda punzecchiando Johnson. L

a giornata si consuma in un’accelerazione convulsa degli eventi. Dapprima arriva l’uscita di scena di Davis, 69 anni, il più manierato dei ‘brexiteer’, che molla il timone del dicastero chiave per la Brexit (assieme a uno dei suoi vice, Steve Baker); quindi ecco l’addio al Foreign Office di Johnson, indocile ed eccentrico ministro degli Esteri.

Due colpi da ko che lady Theresa prova ad assorbire senza fare un plissé. Rimpiazza Davis col ‘giovane leone’ Dominic Raab, 44 anni ex viceministro della Giustizia e poi dell’Edilizia, anche lui ‘brexiteer’. A seguire si dedica alla scelta del sostituto di Johnson, esaminando la candidatura di Michael Gove, finora alla guida dell’Ambiente, che di Boris era stato l’alter ego nella campagna referendaria del 2016, salvo voltargli le spalle già due anni fa per coltivare ambizioni personali e tessere la sua strategia pro-Brexit più attraverso le trame che le polemiche rumorose.

La premier fa capire del resto di non esser disposta alla resa se non vi sarà costretta. Ai Comuni difende la nuova piattaforma delineata venerdì nella residenza di campagna dei Chequers in vista della ripresa delle trattative con l’Ue della settimana prossima. Nega che si tratti di un ‘tradimento del referendum del 2016’, come mormorano i falchi del gruppo parlamentare del suo stesso partito guidati dal rampante Jacob Rees Mogg, potenziale sfidante alla leadership, e in sostanza anche Johnson o Davis.

Giura che la proposta di un accordo di libero scambio con i 27 sui beni prodotti industriali e agricoli e di un regime di dogane aperte con “regole comuni”, non significa la rinuncia a uscire dal mercato unico e dall’unione doganale, oltre che dall’Ue.

Insiste che la sua è l’unica “Brexit giusta”, in grado di coniugare l’impegno a “recuperare il controllo” nazionale dei confini, dei soldi e delle leggi – con la fine della libertà di movimento delle persone e della giurisdizione delle Corti europee – con quello di mantenere “una partnership profonda e speciale” col resto dell’Europa sul fronte del commercio e della “sicurezza” collettiva.

Ma Davis e soprattutto Johnson non ci stanno. Il primo scrive una lettera di rinuncia in punta di fioretto, dicendo di non poter sposare una linea a cui non crede più, aggiungendo di “sperare di sbagliarsi” e tuttavia rimproverandole di aver messo sul tavolo “troppe concessioni e troppo facilmente”, senza neppure la garanzia di non doverne poi fare altre.

Il secondo tira invece di spada. “Il sogno della Brexit sta morendo, soffocato da dubbi inutili”, tuona in quella che pare una chiamata alle armi contro la premier e lo spettro di un regno ridotto “status di colonia”.

Dalla trincea opposta, il leader laburista Jeremy Corbyn, incoraggiato da un ultimo sondaggio, parla da parte sua di “un governo in crisi e nel caos”, di un Paese “prigioniero della guerra civile Tory”, di una premier ormai “incapace di raggiungere un accordo con l’Ue”. E la sfida sarcastico a cedere il passo a “chi può farlo”: il Labour, secondo lui.

(di Alessandro Logroscino/ANSA)