“Italexit”: E’ davvero possibile? A quale prezzo?

La bandiera italiana e quella europea sventolano assieme durante la festa della Liberazione del 25 Aprile. Euro
La bandiera italiana e quella europea sventolano assieme durante la festa della Liberazione del 25 Aprile. FOTO ANSA

Dopo le dichiarazioni del Presidente della Commissione Europea, Jean Claude Junker, riguardanti il DEF e le sue apparenti incongruenze economiche, e il botta e risposta con il Ministro dell’Interno Salvini, ha ripreso piede la suggestione di un’uscita dalla moneta unica o addirittura dall’Unione politica europea.

E’ un’idea che è stata usata molto nella controversa campagna elettorale delle elezioni del 4 marzo, ma che circolava già all’interno dell’opinione pubblica a partire dalla salita al potere dell’ex Presidente del Consiglio, Mario Monti. Infatti a causa dell’aumento delle tasse, del Fiscal Compact (un’accordo siglato tra alcuni stati della zona euro che mira, attraverso dei parametri economici – pareggio di bilancio annuale, riduzione del debito pubblico -, alla crescita e alla stabilità) e delle manovre lesive nei confronti delle classi più deboli, mirate a tirare fuori l’Italia dalla crisi scaturita nel 2009, la popolazione ha maturato un disinteresse nei confronti dell’UE che è sfociato in una sorta di odio viscerale dopo le dichiarazioni, i mancati accordi e l’assente solidarietà su alcuni temi importanti come quello dei migranti. 

Ora, con la bocciatura del DEF da parte di Juker e degli alti “comandi” europei, l’insofferenza italiana nei confronti di Bruxelles potrebbe diventare una triste realtà. Infatti, con una lettera che porta la firma del commissario agli affari economici comunitari, Moscovici, è stato ribadito come non si possano finanziare le misure assistenzialistiche giallo-verdi con l’aumento del deficit. Tali misure, sono contrarie al Patto di Stabilità e Crescita controfirmato dall’Italia, e dai Paesi adottanti la moneta unica, nel 1997. Al Governo Conte sta ora la decisione definitiva: l’Europa vuole un deficit all’1,6%, lontano dal 2,4 previsto per il biennio 2018-2019, quindi quasi 10 miliardi in meno. Comunque sia, tale decisione deve arrivare prima del 15 Ottobre, giorno in cui la legge di bilancio deve essere notificata all’Unione Europea.

Con uno scenario del genere, un’Unione Europea apparentemente contraria a queste misure di crescita adottate dal Governo, quanto potrebbe stuzzicare l’idea di uscire dalla moneta unica che ci impone questi vincoli? Come in tutti i casi ci sono pro e contro, più numerosi.

Sicuramente non sarebbe un bene dare ascolto alla pancia del Paese che reclama più indipendenza e “meno soldi per Bruxelles”, ma non è nemmeno un bene che l’Italia in certi casi sia trattata da fanalino di coda decisionale o economico. Molte sono le responsabilità della nostra classe politica, ma anche poca è la fiducia e il rispetto europeo verso uno dei Paesi fondatori o, come si dice in gergo, del “nucleo fondamentale”.

Esistono molti “piani B” al riguardo, redatti da alcuni economisti dai volti noti (come Paolo Savona, attuale ministro delle politiche UE), ma non recano certezze, sono soltanto delle ipotesi. Infatti questi progetti basano le loro certezze sul risparmio dei 14 miliardi circa che l’Italia versa annualmente nelle casse di Bruxelles (quarto contributore dietro i “grandi”), ma non tengono conto che queste gentili donazioni, tornano con gli interessi sotto forma di investimenti e “fondi comunitari per lo sviluppo e la crescita”. Secondo un recente studio condotto da alcune agenzie statistiche l’Italia ha registrato un aumento del 15,7% “nell’assorbimento delle risorse europee”. In molti, però, lamentano che il saldo dei fondi che ritornano in Italia sotto forma di investimenti sia minore rispetto a quanto il nostro Paese dà effettivamente. Se confrontiamo i dati, sempre ricavati da agenzie statistiche di indubbio spessore, l’Italia a fronte di 14 miliardi di euro annualmente versati, ne “riceve” soltanto 5,4. Una differenza abissale a quanto pare, ma qui casca l’asino! Molti imputerebbero ciò agli illuminati, alle politiche europee svantaggiose nei confronti dell’Italia e al cambio delle stagioni, ma non è così. L’abissale differenza di fondi risiede nella mancata capacità di redarre dei progetti industriali, di sbloccare fondi per la crescita e per l’inettitudine gestionale degli operatori nazionali e dall’andamento del ciclo di programmazione. Sono tutte cause addossabili alla nostra classe dirigente. Un esempio? I fondi strutturali per il Sud Italia: di circa 3,6 miliardi previsti per il periodo 2014-2020, sono stati spesi soltanto il 2,6%, tanto che un articolo di recente fattura titolava “Il Sud spende poco e male”. Più chiaro di così!

Poi ci sarebbe il caso politico più eclatante: Dublino. Il trattato, che tutt’oggi è obiettivo di maledizioni varie, è un caso vecchio e attribuibile alla classe dirigente italiana che non ha mai avuto particolari meriti relativi “alle proiezioni migratorie future”. L’episodio risale al 2003, anno del Trattato, quando il Governo di Centrodestra di Berlusconi, rese operativo il contenuto della Convenzione di Dublino degli anni ’90. Il contenuto lo conosciamo tutti e si rifà alla “regola” secondo cui il primo Paese in cui avviene lo sbarco deve procedere all’identificazione, e a tutte le misure relative, dei migranti. In quel momento, la mancanza di lucidità dei nostri governanti fu davvero grave, poiché non tennero conto della grande migrazione proveniente dalla Nigeria e dal Centroafrica che negli anni Duemila interessò il Mediterraneo. Ma è ancor più deplorevole  l’associare la colpa di questo misfatto ad altri partiti che non erano al Governo nel 2003. Ovviamente, il leader di Forza Italia cercò di rimediare all’errore attraverso un accordo bilaterale con Gheddafi, ma ciò fu del tutto inutile con l’affacciarsi di Obama e delle Primavere Arabe. Ma questa, è una storia di cui mi son già occupato in alcuni articoli precedenti.

Ovviamente, questa non è una disanima che non vorrebbe difendere a spada tratta l’Unione Europea, ma è volta a far capire che non tutte le responsabilità dei nostri fallimenti sono addossabili a Bruxelles.

Non mancano le responsabilità che fanno capo alla classe politica comunitaria. Infatti, lo scetticismo e le dichiarazioni antidemocratiche di alcuni uomini, come il suddetto Junker o del commissario agli affari comunitari Moscovici, che non fanno altro che aizzare l’opinione pubblica e creare scompiglio all’interno della classe dirigente, come se fosse una partita di calcio con degli ultras poco amichevoli. Inoltre, i mancati accordi sui migranti e la loro redistribuzione, la mancata collaborazione/solidarietà dei Paesi dell’Est che “prendono e non danno”, Macron e i suoi mal di pancia anti-populisti, creano una sorta di risentimento e aizzano i sospetti di un’Unione troppo politica e poco comunitaria. Infatti, siamo tutti testimoni della mancanza di spirito fraterno dei nostri partner europei, soprattutto in vista di un accordo riguardante la già citata redistribuzione dei migranti, ma non solo. Gli interessi nazionali di alcune Nazioni, senza fare nomi la Francia, certe volte vanno a cozzare consapevolmente quegli italiani, come in Libia. O ancora, le intromissioni di alcuni politici nelle elezioni politiche appena svolte e il non voler accettare il risultato di votazioni democratiche andando contro i principi cardine della stessa Europa e della Costituzione di uno Stato membro.

E’ evidente che l’ente sovranazionale di cui facciamo parte soffra di amnesie democratiche, soprattutto nell’adozione di decisioni cardine che possono influenzare lo svolgimento dell’attività economica, sociale e politica dei suoi Paesi. In un mio articolo rintracciabile sul blog, riguardante i decisori europei, feci riferimento alla situazione di emergenza inaugurata con la crisi del 2008/09 che ha fatto piombare l’intero Occidente industrializzato in un periodo buio paragonabile alla crisi del 1929. Durante quegli anni, alcuni stati decisero di prendere delle misure economiche attraverso il ricorso a quello che è definito “metodo inter-governativo” che fa capo ai singoli Stati. Ovviamente, Francia e Germania, i due Paesi più influenti decisero di salvare la propria baracca lasciando da parte l’Italia e gli altri Paesi più indebitati. Ecco, queste amnesie democratiche provocano una sorta di risentimento nei confronti di coloro che usano l’UE come scudo per i propri interessi.

Ora, però, a fronte di quanto detto, nella più estrema delle ipotesi, cosa succederebbe all’Italia se decidesse di uscire dall’imperfetta Unione Europea? 

Gli scenari imponibili sono due ed hanno bisogno di un’ulteriore chiarificazione: o l’Italia esce dalla moneta unica, oppure dall’Unione politica intera.

Il Presidente del Parlamento Europeo, Antonio Tajani, sottolineò come non ci fosse nessuna differenza tra le due cose, sottolineando come l’uscita della moneta unica avrebbe comportato una catastrofe economica ai conti italiani e ai mutui dei cittadini. Invece, secondo alcuni economisti/politologi, le cose cambiano a seconda di cosa si sceglie.

L’uscita dall’Unione Europea, come la Brexit, è prevista dall’art. 50 del Trattato sull’Unione Europea del 1992 (conosciuto come Trattato di Maastricht), ma, apparentemente, non è prevista la sola rinuncia alla moneta comune. O sei completamente dentro o sei fuori da tutto. 

Inoltre, la moneta è obbligatoria per tutti i Paesi membri che hanno raggiunto determinati parametri economici, o come l’Italia che promise di raggiungerli. Le uniche eccezioni, non senza qualche polemica, sono rappresentate da Regno Unito e Danimarca.  Chi non raggiunge i determinati parametri viene etichettato come “Stato con deroga”.

La Svezia, invece, ha da tempo raggiunto i parametri economici per l’ingresso nell’Euro ma non ha mai voluto ultimare il procedimento poiché in un referendum popolare, solamente consultivo, il “no” alla moneta unica vinse con il 55,9% dei voti.

Il caso dell’Italia sarebbe diverso. Qui non si parla di uno stato che, pur avendo i requisiti, non ha mai aderito all’Euro, ma di uno dei Paesi cardine dell’Eurozona.

L’Italia, dal canto suo, potrebbe negoziare con l’Unione Europea un accordo simil-UK, con l’uscita dalla moneta unica ma non dall’ente comunitario. Sarebbe molto difficile ottenerlo, data la situazione attuale, ma il tutto non risulterebbe così drastico come invece è stato previsto dal vicepresidente di Forza Italia.

Discorso diverso per il mercato unico. Molti sono i casi di Paesi non aderenti alla moneta unica ma che partecipano all’EFTA (European Free Trade Association) e all’EEA (European Economic Area). L’Italia, uscendo dall’Euro potrebbe fare come la Norvegia, l’Islanda e il Liechtenstein, negoziando un accordo di partnership molto stretta con Bruxelles. Una situazione che potrebbe rendere difficile la vita agli italiani, e che la sta rendendo anche agli inglesi, riguarda la libertà di circolazione di persone, merci e capitali (European Customs). Servirebbe una politica forte e capace per negoziare un accordo favorevole nel minor tempo possibile.

Veniamo ora ai “danni” che l’uscita dall’Unione Europea e dalla moneta unica potrebbero provocare.

Per quanto riguarda il primo aspetto, l’uscita politica dell’Italia provocherebbe un isolamento a livello internazionale. Isolamento che all’interno dei processi di internazionalizzazione e globalizzazione sarebbe fatale. Il peso politico dei singoli stati, a meno che non ti chiami “Russia/Cina/USA” è molto debole. La Germania e la Francia, storicamente ed economicamente forti, la fanno da padrone soltanto perché godono di un certo peso all’interno di un Ente più grande e internazionalmente riconosciuto. Gli Stati Nazionali Ottocenteschi, caratterizzati da una politica di potenza militare, sono già passati da un pezzo. Le relazioni diplomatiche, finanziarie e politiche al nostro tempo rivestono un’importanza davvero decisiva. Basti pensare all’ONU e ai vari trattati che vengono stipulati tra le potenze globali relativi allo sviluppo economico e commerciale. L’Italia, indebitata e priva di un peso politico rilevante come all’epoca, si troverebbe a chiedere l’elemosina e a trattare da una posizione isolata e svantaggiosa. Poi, è ovvio che questa rappresenterebbe soltanto un’ipotesi, nessuno vieta di immaginare in un colpo di fortuna o “di fiducia” innata nelle nostre capacità, comunque apprezzate, e di stipulare una serie di accordi vantaggiosi sia a livello politico che economico. Però è indubbio il fatto che un Ente sovranazionale riveste un importanza maggiore rispetto al singolo Stato. 

L’uscita dalla zona Euro, invece, ha diverse sfaccettature perché o si opterebbe per l’adozione di una nuova moneta (o il ritorno alla Lira), oppure la doppia circolazione (Euro-Lira).

Il ritorno alla Lira sarebbe una scommessa che soltanto uno stato non indebitato, economicamente e politicamente forte, potrebbe fare. Infatti, il ritorno alla moneta che ha fatto la storia del nostro Paese, avrebbe dei rischi che ricadrebbero su investimenti e risparmi delle piccole-medie imprese e sulle spalle dei meno abbienti. Il dibattito sui benefici nel lungo periodo sono ancora aperti e gli economisti nostrani si dividono sull’esito di questa scelta. Sono possibili, ovviamente, solo delle ipotesi che non hanno la pretesa di essere “verità assoluta”. Tenendo presente che con l’Euro gli effetti della crisi dei debiti sovrani del 2011 sono mitigati dal fatto che la BCE compra i nostri titoli di stato, un ritorno alla Lira farebbe schizzare l’inflazione a dei livelli critici, provocando uno svuotamento delle banche e una nuova politica di austerity (controllo dei prelievi).

L’inflazione provocherebbe l’aumento dei prezzi di tutti i beni, anche quelli di prima necessità. Inoltre, essendo l’Italia un Paese con duemila miliardi di euro di debito, la riconversione del debito in Lire sarebbe disastrosa. Il commercio estero, ad esempio di materie prime, sarebbe altamente svantaggioso perché la nostra moneta non avrebbe un valore elevato, mentre la vendita dei nostri prodotti avrebbe, essendo i costi bassi, un’impennata preoccupante. Questa, però, verrebbe vanificata dall’aumento dei costi di produzione. Ovviamente, anche il potere d’acquisto delle famiglie diminuirebbe a causa del maggiore costo dei beni, dovuto all’inflazione.

Gli investimenti sul territorio nazionale, vista la riconversione del debito e l’uscita dalla moneta unica, terminerebbero a causa dell’azzeramento della leadership e della fiducia.

L’ipotesi della doppia moneta, ha riscosso maggior fortuna. Quello che ho ribattezzato “metodo svizzero”, potrebbe rappresentare uno sviluppo interessante perché da un lato, non si obbligherebbero i cittadini ad usare l’euro o la Lira, dall’altro, invece, si potrebbe ritornare a far ri-circolare una moneta bisognosa di mercato. L’introduzione della Lira sarebbe, ovviamente, progressiva, nell’arco di tre o cinque anni e il tasso di cambio si formerebbe in base al mercato che la nuova moneta avrà, non necessariamente così disastroso come dipinto in precedenza. I salari, gli stipendi e le pensioni potrebbero, inizialmente, essere pagati in euro mentre le aziende potrebbero vendere i propri prodotti nella più debole Lira, triplicando i guadagni e compensando le perdite con il più forte Euro. Anche su “Piazza Affari”, le cose cambierebbero, poiché i titoli di stato, gradualmente, tornerebbero a finanziarsi in Lire con la sostituzione progressiva dei BTP in euro con i BTP della moneta nazionale.

Una transizione del genere, sarebbe meno dolorosa per il popolo italiano e per le aziende nostrane. I costi di un’uscita dalla Zona Euro, ci saranno obbligatoriamente e si presenteranno, molto presto, alla porta di ognuno di noi. L’arma più potente in mano nostra è, ancora una volta, la politica. Il fattore politico, per un’uscita non apocalittica, è essenziale. La diplomazia dei nostri leader al Governo, lontana dagli sfotto’ e dai toni degli ultimi giorni, dovrebbe essere il più conciliante possibile. Ma, da un lato dovremmo sperare che l’Eurozona non punisca chi abbandoni l’unione monetaria, dall’altro che al Governo ci siano degli uomini che abbiano le idee chiare sul da farsi, presentando diversi “piani B” per una ripresa nel minor tempo possibile.

Oppure, alla fine della fiera, bisognerebbe confidare in un percorso non disfattista, ma conciliatorio con i Paesi dell’Eurozona per una politica fiscale chiara e comune, senza parametri intimidatori e misure anti-assistenzialistiche per le classi meno abbienti. L’uscita dall’Unione politica o dalla moneta di un membro fondatore ed economicamente rilevante come l’Italia, sarebbe un duro colpo per Bruxelles che difficilmente potrà sopportare, o meglio sostituire. Il nostro Paese, e l’Unione Europea tutta, avrebbe bisogno più di una politica comunitaria su temi importanti e meno polemiche e attacchi alle varie classi dirigenti che, in un modo o nell’altro, godono della legittimazione popolare e varano delle misure, rischiose ma coraggiose, finalizzate alla crescita.

Perché, come ho ripetuto in diversi articoli, “l’Italia non esiste senza Unione Europea, ma non c’è Unione Europea senza l’Italia”.

 

Donatello D’Andrea