Che cos’è il populismo? Genesi e sviluppo di un abuso

Nella foto: Donald Trump, Marine Le Pen e Matteo Salvini, considerati i principali leader populisti mondiali. Populismo
Nella foto: Donald Trump, Marine Le Pen e Matteo Salvini, considerati i principali leader populisti mondiali. FOTO GLOBAL PROJECT

Cos’è il populismo?

Questa, dovrebbe essere la domanda che dovrebbero porsi tutti coloro che abusano di questa parola. In primis i mass media, che associano questo termine ad una bestemmia, poi le classi dirigenti di turno (e le opposizioni) e infine il popolo tutto. Attualmente, questi soggetti citati, quando si riferiscono alla politica “populista”, travisano completamente il suo significato. Dipinta in modo dispregiativo, tale categorizzazione dell’attività politica ha una nobile storia alle sue spalle e ancor più nobili sono i fini per cui è nata.

Qual è la radice, la storia, del populismo?

Attualmente, è come se questa parola possedesse due significati: quello prettamente e scientificamente politico e quello giornalistico, attribuito dai media di qualsiasi colore. Il primo ha origini russe, e fu un movimento non solo politico ma anche intellettuale. Nella seconda metà del ‘800, infatti, il primo socialismo dilagava nelle campagne europee con le sue idee di sviluppo e di miglioramento delle condizioni di vita degli operai e dei contadini dell’Impero zarista. Il secondo, invece, viene accostato di solito a coloro che propongono politiche di “destra” oppure a-partitiche senza una particolare appartenenza ideologica. Un modo, tutto giornalistico, di individuare il “populista”, come se fosse una caccia, è quello relativo al carisma, alla fortuna (sia economica che mediatica) e allo stile comunicativo del leader del partito di turno.

In Italia, invece, la genesi del populismo è stata diversa. Nessun movimento ottocentesco che rivendicava qualche diritto. Certo, all’inizio del secolo scorso i socialisti si battevano per i diritti all’interno delle industrie, ma nessun leader prese in mano la situazione a causa della dura repressione attuata dai Savoia. Nessun populismo degno di nota, quindi, era presente sullo scacchiere italiano.

La scena politica della Prima Repubblica è stata ampiamente popolata da sobrietà, doppiopetto e professionalità. La classe dirigente dei primi cinquant’anni democratici, non era formata da “movimenti” bensì da veri e propri partiti politici con leader che dall’alto del loro pulpito si rivolgevano al popolo usando paroloni, metafore ed espressioni decise che miravano ad incutere rispetto ed ammirazione. Dopo Tangentopoli, la classe dirigente nostrana fu decapitata e in parte sostituita da uomini che, non essendo politici di professione, tendevano (e tendono) a dialogare con il popolo nelle piazze e non sulle piattaforme in legno, reggenti un microfono e poste in alto, come simbolo di superiorità.

Da qui la “genesi” del populismo italiano.

La nascita del termine, in Italia, è coinciso con la “discesa in campo”, nel 1994, dell’attuale leader di Forza Italia: Silvio Berlusconi. Infatti, non solo la sinistra lottava contro il berlusconismo (scordandosi degli operai e della ragione sociale del loro partito), ma anche i giornali eseguivano degli “studi” sul modo di porsi, di rispondere alle domande e di fare politica dell’ex Cavaliere. Il tutto veniva ricondotto al nuovo modo di dialogare con il popolo e con il partito: “personalizzazione della politica”.

Un partito personale, come Forza Italia, che rispondeva solo al proprio leader, modificando radicalmente ciò che le formazioni politiche erano in passato (erano i leader che davano conto ai partiti e non viceversa), bastava per definire Berlusconi come populista. Inoltre, l’imprenditore lombardo, aveva un modo di comunicare con il popolo del tutto innovativo per la scena politica nostrana: comparse in programmi sportivi, su riviste dai temi più vari e soprattutto un linguaggio chiaro, forte, spregiudicato e molto molto semplice. La politica, finalmente, era alla portata di tutti, lontana da quel politichese in giacca e cravatta che ha caratterizzato la Prima Repubblica e le dispute tra PC, DC e PSI.

Il diverso stile comunicativo, meno istituzionale e più diretto, ha trasformato Berlusconi in un politico “pop”. L’apparizione sulle riviste settimanali come Chi? e quelle in tv con Biscardi a parlare di calcio erano inusuali per un uomo dal ruolo politico e istituzionale importante.

Anche altri leader come Matteo Renzi e Matteo Salvini, discostano dalla figura “classica” del politico. Infatti, il loro stile comunicativo e l’aver trasformato il loro partito in un’agenzia di stampa o in un “club” dove la fanno da padrone, ha molto influenzato la loro collocazione nella “categoria” di cui stiamo parlando.

Interessante è, invece, l’accostamento “nuovo partito=populismo”. In tutta Europa, infatti, stanno prolificando delle formazioni politiche che perseguono obiettivi di tipo sovranista, indipendentista o semplicemente “critici” nei confronti della classe dirigente governante. Ecco, molti fanno l’errore di confondere gli obiettivi del populismo con quelli del sovranismo. Il primo, ha come punto cardine il “popolo”, fare del bene per il popolo. Il secondo, invece, mira a perseguire o riconquistare la sovranità perduta dal popolo stesso o da una Nazione. In poche parole, usando un esempio efficace: i sovranisti vorrebbero meno governance internazionale (ad esempio, a discapito di un ente sovranazionale, come l’UE), i populisti vorrebbero perseguire delle politiche a favore del popolo, a prescindere dalla collocazione in un blocco sovranazionale. Due cose completamente diverse, ma che in molti casi vengono confuse. Niente vieta, però, di trovare un partito che abbracci entrambe le ideologie.

I partiti definiti populisti nello scenario europeo sono tanti: da Forza Italia, Lega Nord e Movimento Cinque Stelle a Podemos in Spagna, UKIP nel Regno Unito, “Alternativa per la Germania” in terra tedesca e Front National in Francia. Non c’è bisogno (o forse si…) di dire che questo crogiolo di formazioni neonate perseguano delle politiche simili, abbracciando ideologie differenti. Vengono definiti populisti solo ed esclusivamente per motivi anagrafici: sono nati dopo i partiti di matrice novecentesca (CDU e SPD, PP e PSOE, PD). Non è quindi, la ragione sociale a definire l’appellativo di “populista”, è semplicemente la data di nascita!

Anche se Donald Trump, Presidente degli Stati Uniti e principale figura del Partito Repubblicano, è considerato un leader populista nonostante l’appartenenza ad una formazione politica vecchio stampo. Questo perché non è il partito ad essere “inconsueto”, bensì la figura di Trump. Una figura lontana dai professionisti, come Obama ad esempio, che hanno caratterizzato per decenni la politica a stelle e strisce. Il modello Trump, come quello Berlusconi, è formato da uno stile comunicativo diverso, diretto e aggressivo e da un carisma forte e deciso, lontano dal classico target della Casa Bianca.

Un altro “falso indizio” nella lotta al populismo è l’associarlo alla demagogia. Demagogia, pratica ampiamente usata in Italia, è quando un attore politico prova ad ottenere consensi elettorali con promesse difficilmente realizzabili. Nonostante la politica italiana sia, da sempre, soggetta a questo mortale vizio, non è assolutamente corretto assimilare l’incapacità di mantenere le promesse al populismo. Potremmo parlare, in questo caso, di “populismo negativo”, facendo riferimento alle promesse “per il popolo” mai mantenute.

Nel dibattito pubblico quotidiano questo termine, dunque, è diventato sinonimo di ogni tipo di pratica non convenzionale o negativa associabile a politici del tutto nuovi, dall’aria meno professionale ma più decisa, dura e minacciosa.

Questi mille modi di definire l’attività populistica ha confuso anche le idee dei matusa e dei luminari in merito: esistono, ad oggi, più populismi di matrice ideologica diversa: di destra o di sinistra, meno o più comunicativo, conservatore, nazionalista o internazionalista; chi lo intende più come una logica politica e non come una ideologia. Al di là di questa galassia di definizioni, gli scienziati sono concordi nel definire il populismo come:

“Una ideologia dal cuore sottile, la quale considera la società essenzialmente divisa in due gruppi omogenei, le persone oneste [pure] contro le elite corrotte e che ritiene che la politica debba essere un’espressione della volonté générale (volontà generale) del popolo” (Cas Mudde, politologo olandese). 

Ciò significa che ogni ingerenza esterna da parte di personalismi, cultura “pop” e di demagogia, renderebbe “nulla” la portata positiva di questa nobile arte. Populiste sono quelle formazioni politiche che nel loro messaggio sviluppano delle politiche che mettono al centro il popolo, unità unica e indivisibile e portatore di valori positivi. Il “nemico” è l’élite, di natura politica, economica e finanziaria, corrotta e inaffidabile. Il populismo rifiuta il concetto di pluralismo e, quindi, di élitismo.

Tenendo conto della definizione corretta del termine populismo e del modo, da me semplificato, di intendere il concetto, nessuno dei leader, partiti e movimenti citati nei paragrafi precedenti può essere definito “populista”. Renzi, Berlusoni e Salvini, nelle loro “pose/attività quotidiane” sono soltanto la copertina di quella che viene definita “politica pop”, politici come pop-star. Nemmeno la Lega e il Movimento 5 Stelle possono essere considerati come partiti prettamente populisti, nonostante la miriade di post e di messaggi sui social a “favore del popolo”, quella è semplicemente comunicazione pop. Ovviamente, alcuni loro messaggi rivolti contro le elites al potere, economiche e finanziare, possono essere considerati “populisti”, ma la politica perseguita, presente nel contratto di Governo, non è tipicamente populista. Le elites industriali ad esempio, favorite dalla riduzione delle tasse e dalla flat tax di stampo leghista, rappresentano l’esempio lampante di quanto il termine “populismo” cozzi con questo modo di fare.

La ricerca di un nemico esterno, invece, fa parte di quello che viene identificato con “populismo nazionalista”. Pratica usata dai regimi autoritari, la ricerca di un pretesto, un nemico esterno al popolo e che potrebbe agire da un momento all’altro, è ampiamente usato al giorno d’oggi.

L’attuale classe dirigente italiana penta-leghista, non è totalmente populista. Essa, è la diretta conseguenza del fallimento dei partiti d’ispirazione novecentesca andati in crisi con Mani Pulite, il berlusconismo e il mancato ricambio ideologico-generazionale. In questo lasso di tempo, hanno dimenticato la loro ragione sociale, il popolo, i lavoratori e le misure assistenzialistiche, poiché troppo occupati a combattere un nemico proveniente da Arcore e a fronteggiare la crisi economica che ci ha trovati impreparati e indebitati fino al collo. Questo Governo, è necessariamente populista non per definizione accademica, ma per necessità. Questo Governo è nazionalista, per necessità. Delle necessità che corrispondono al bisogno del popolo di risollevarsi dalla crisi nera, economica e sociale, dalla necessità di ritrovare la dignità perduta tra una “promessa demagogica” e un’altra, tra un partito dell’ancien règime e di uno che, esauritasi la verve del proprio leader, è caduto nel baratro.

Ovviamente, non è un populismo puro e accademico, bensì uno intrinseco di incongruenze e contraddizioni che lo discostano molto dal vero significato del termine. Magari, potrebbe essere questa una nuova forma di “populismo catch all”, o pigliatutto. Come lo sono i partiti Lega e Cinque Stelle d’altronde.

Un populismo che abbraccia più esigenze popolari, spingendosi fino agli estremi con imprenditori e aziende e con più nemici (l’Europa e “i poteri forti”), richiamando da lontano un sovranismo contraddittorio all’interno dello stesso Governo.

Sicuramente, lungi dall’affermare che la strada intrapresa dall’Italia sia quella giusta (ma per ora non si può dire nemmeno il contrario), questa, possiamo affermarlo, è l’era della ricerca della sovranità, del nazionalismo e della popolo. I partiti di tutte le Nazioni, europee e non, si richiamano a delle politiche che coinvolgono il popolo in prima persona, mischiandole alla demagogia e ad altre partiche che hanno “imbastardito” il concetto vero e proprio di populismo. Le vecchie elites hanno ignorato le esigenze della cittadinanza permettendo ai movimenti di farne la propria bandiera.

Dunque, seppur la definizione di populismo sia unica e indefettibile, i bisogni, le richieste, gli obiettivi e le esigenze del popolo hanno permesso l’evoluzione di questo termine che non è, al contrario da quanto riportato dai media, negativo o epidemico. Forse, negativo ne è l’uso o l’associazione a questo o quel partito, ignorandone la storia e la genesi e lo sviluppo definitivo. 

Donatello D’Andrea