Per Trump è fatta, verso dazi al 25% alla Cina

Un lavoratore dello stabilimento di lavorazione dell'acciaio a Hangzhou, circondato da bobine di acciaio. Cina
Un lavoratore dello stabilimento di lavorazione dell'acciaio a Hangzhou. (Cina). (Chinatopix via AP)

ROMA. – Il dado è tratto: gli Usa vanno dritti verso l’imposizione di dazi al 25% su ben 500 miliardi di import dalla Cina. Le condizioni poste dal presidente Donald Trump per un accordo al G20 di Buenos Aires con Xi Jinping sono volutamente inaccettabili, ed è troppo alto il capitale politico speso da Washington nel fine ultimo, che è quello di staccare la catena del valore cinese dalla produzione americana.

Uno scenario che coinvolge da vicino l’Europa, che probabilmente eviterà le ire di Trump, con la minaccia di colpire il settore automobilistico, purché si tenga a una distanza di sicurezza dai progetti di Pechino. E che nasconde benefici per l’Italia, che grazie ai dazi può vedere una decisa ripresa del suo export: “più gli Usa mettono tariffe sulla Cina, più noi riprendiamo a produrre per loro mobili, scarpe, moda, tessile, macchinari, ceramica: c’è la possibilità di reindustrializzare”.

A dirlo è Alberto Forchielli, partner fondatore di Mandarin Capital Partners ed economista esperto di Cina e commercio estero. Che in un’intervista al telefono da Boston, dove segue da vicino l’amministrazione Trump, non ha dubbi: “l’incontro fra Trump e Jinping al G20 è destinato a fallire. Le condizioni che gli Usa hanno chiesto alla Cina sono impossibili da accettare per Pechino”.

E dunque dal 1° gennaio i dazi Usa balzeranno al 25% su ben 500 miliardi di dollari di importazioni, per smantellare gli investimenti occidentali in Cina e con essi una catena globale del valore che ruota attorno alle fabbriche cinesi e ha falcidiato l’industria americana. Già è in atto un boom vero e proprio di investimenti nel sudest asiatico di imprese occidentali, specie americane, che stanno via via uscendo dalla Cina.

Nel quadro di un’offensiva più ampia, che passa dalla tutela della proprietà intellettuale allo spionaggio industriale (basta guardare al blocco da parte della commissione sugli investimenti esteri della vendita di Permasteelisa ai cinesi di Grandland holding o al prossimo probabile passo, il veto agli studenti cinesi che vogliono prendere un master o dottorato negli Usa in materie scientifiche).

E l’artefice principale dell’offensiva trumpiana, il Trade Representative Bob Lighthizer che ha fatto della risposta a Pechino la battaglia di una vita, ha ormai con sé il dipartimento del Commercio e il silenzio-assenso sia del dipartimento di Stato che del Tesoro. Una partita che coinvolge l’Europa: la Germania rischia ricadute problematiche, perché è legata a doppio filo alla Cina, che con un interscambio da quasi 200 miliardi di euro è il suo primo partner commerciale. I suoi ‘big’ dell’auto, come Bmw, continuano a investire in Cina.

Trump minaccia dazi all’Europa perché vuole un disimpegno del Vecchio Continente: “vogliono un gesto di solidarietà europeo”, spiega Forchielli. Ma un accordo di fondo con l’Europa comincia a delinearsi, “l’atteggiamento antieuropeo dell’amministrazione si è molto, molto smussato. Il proposito di spaccare l’Europa è andato in cavalleria”, dice Forchielli, e con essa l’idea che vuole l’Italia interlocutore privilegiato, ‘grimaldello’ di Washington per sfasciare l’Ue.

Anche perché “gli italiani hanno fatto due errori micidiali”, dice l’economista di Imola che si divide fra l’Italia, Bangkok e gli Usa. “Tagliare 1,5 miliardi di spesa per la difesa quando Washington chiede di spendere di più”, con la vicenda degli F35 che rischia attriti diplomatici. E soprattutto a Washington dà fastidio l’iniziativa italiana di essere primo paese europeo ad aderire alla nuova ‘Via della seta’. COnclusione: per Forchielli “l’idillio con l’Italia e con i gialloverdi si dissolverà come neve al sole, anche per via del ‘filoputinismo’ di Salvini”.

(di Domenico Conti/ANSA)

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