Governo Conte: Tra “fatti”, “parole” e “buone intenzioni”

I tre principali esponenti dell'attuale Governo: Luigi di Maio, il Presidente Giuseppe Conte e Matteo Salvini. FOTO ANSA

Dopo l’Ottobre caldo italiano (su cui ho scritto un articolo recentemente pubblicato su questo quotidiano), che ha provocato una leggera flessione nei sondaggi e una piccola spaccatura interna al Governo, il mese di Novembre si appresterà ad essere un banco di prova importante per la tenuta di Giuseppe Conte a livello interno ma soprattutto internazionale.

Infatti, il Premier e la sua squadra di Governo saranno messi a dura prova su determinati argomenti di rilevante importanza. A partire dal decreto sicurezza, di stampo leghista, passato al Senato qualche giorno fa attraverso lo strumento del voto di fiducia, un metodo molto discusso che lega il destino del Governo a quello della legge da approvare – di solito molto controversa -, mentre alla Camera, verrà discusso e probabilmente approvato tra il 22 e il 23 Novembre.

Il decreto di cui il Ministro dell’Interno, Matteo Salvini, va fiero è composto da un corpus di articoli che abrogano gran parte della legislazione precedente in materia di immigrazione. Il decreto, infatti, ha suscitato aspre polemiche non solo all’interno delle opposizioni, da sempre restie ai progetti salviniani, ma anche all’interno della maggioranza, dove dei dissidenti hanno votato contro. Tutti gli emendamenti proposti per ammorbidire la futura legislazione sono stati respinti, tranne quello proposto dal Governo che inasprisce ancor di più le misure restrittive. Molto brevemente, la legge prevede l’abolizione della protezione umanitaria, la revoca della cittadinanza in caso di condanna per terrorismo, il ridimensionamento del sistema di accoglienza ordinario dei richiedenti asilo (SPRAR) e la revoca dello status di rifugiato dei condannati in primo grado per alcuni tipi di reati.

Una prima lettura del corposo decreto sicurezza sembrerebbe chiarire le idee sulle intenzioni del Governo Conte: limitare gli ingressi e soprattutto la permanenza dei clandestini sul suolo italico. Ma non è tutto: il Governo ha stilato una lista di Paesi “sicuri” (a dire il vero stilata da delle agenzie internazionali) e una “procedura per la domanda di protezione infondata” per quei richiedenti asilo che provengono da zone in cui non esiste una guerra in corso. Ovviamente la richiesta non è respinta a priori, il rifugiato dovrà fornire delle valide motivazioni affinché dimostri le cause eccezionali che l’hanno costretto a fuggire dal suo Paese d’origine.

Non c’è bisogno che sottolinei la mole di polemiche che la discussione del decreto ha suscitato. Le opposizioni (volutamente plurale perché la responsabilità è condivisa), tra un’accusa e l’altra, dovrebbero ricordare che, per quanto discutibili siano alcuni articoli contenuti nell’atto legislativo, questa situazione è una diretta conseguenza della “vendita del suolo italiano all’Unione Europea”. Infatti, il fallimento del modello di integrazione suscitato dal progetto “sbarcano tutti in Italia, poi li distribuiamo con calma” ha portato alla necessità di misure restrittive che costringano una volta per tutte l’Istituzione Sovranazionale Governante (UE) a smuovere la situazione prima che sia compromessa definitivamente. Ovviamente, non mancano anche le polemiche di alcune organizzazioni umanitarie italiane e non che, “trovandosi a corto di 35 euro” (di cui in media solo 2 euro vanno al rifugiato), hanno contemporaneamente perso anche la solidarietà.

In futuro, tornando al tratto politico della vicenda, il “voto di fiducia”, un’arma usata dagli esecutivi per ricompattare delle maggioranze molto farraginose e dispersive, avrà degli effetti sulla tenuta futura del Governo poiché l’uso prematuro di questo strumento allude spesso a delle piccole fratture in capo al Parlamento e forse al Consiglio dei Ministri. Questa, ovviamente, è un’opinione basata non solo su degli studi in merito, ma soprattutto su alcune vicende in particolare che hanno alimentato crescenti sospetti sullo stato degli umori all’interno delle grandi stanze di Palazzo Chigi. Il primo indizio è quello relativo alla “manina”, trattato in un precedente articolo, dove sottolineai la presenza di franchi tiratori alle spalle dei Ministri Di Maio e Salvini; il secondo indizio, già citato, è quello dei dissidenti, cinque, che hanno votato contro il decreto il 7 Novembre al Senato.

D’altro canto, se la maggioranza vacilla il Ministro Salvini, invece, gongola. Infatti, nonostante ci sia un esecutivo da stabilizzare, il Ministro dell’Interno pensa a sfruttare alla perfezione le occasioni che gli si presentano per accrescere il suo consenso.

Dico questo perché, il leader della Lega, dopo aver ottenuto la fiducia sul decreto, ha registrato anche un altro importante successo: il rinvio della legge sulla prescrizione al 2020. Ciò non significa che il progetto non verrà presentato in aula, ma semplicemente che la legge produrrà i suoi effetti giuridici a partire dal 2020, come stabilito nella norma transitoria.

Il “punto della discordia” tra Di Maio, che ha minacciato di far saltare il banco senza un accordo, e Salvini è quello relativo all’interruzione dei termini di prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Tale contenuto ha provocato l’indignazione del Ministro della Pubblica Amministrazione, Buongiorno, e di gran parte della classe giuridica italiana.

In poche parole, il Movimento Cinque Stelle vorrebbe ridurre i tempi della giustizia, smontando quella che era diventata una pratica troppo comune tra gli avvocati più furbi: ricorsi e rinvii che lasciavano impuniti coloro sospettati di aver commesso dei reati.

Una, ovvia, critica a questo progetto di legge viene dalla Costituzione all’articolo 111 dove spicca la dicitura “giusto processo”. Ecco, il superamento della prescrizione potrebbe non garantire il corretto espletamento della funzione giudiziaria e impedire all’accusato una degna difesa.

Per evitare equivoci, ricorriamo al Codice Penale per la definizione corretta di “prescrizione” (art. 157 C.P.):

La prescrizione è, nel Codice Penale, l’estinzione di un reato al trascorrere di un determinato periodo di tempo ed ha lo scopo di assicurare all’imputato un giusto processo in tempi ragionevoli.

Nonostante la rassicurante definizione data dal Codice, il sistema penale ha bisogno di essere riformato, soprattutto dal punto di vista della prescrizione. Tutti i Governi precedenti hanno cercato di porre rimedio ad un istituto sempre più simile all’assoluzione che ad uno strumento d’economia giuridica posto all’insegna del “giusto processo”, costituzionalmente garantito. Infatti, trascorso un determinato periodo di tempo stabilito, lo Stato rinuncia a perseguire l’autore del reato e risulta anche più difficile reperire delle prove. Purtroppo, in alcuni casi molto gravi, la prescrizione funziona come strumento di intralcio allo svolgimento del processo, lasciando senza giustizia i parenti delle vittime.

L’emendamento dei grillini, nel decreto anti-corruzione, dovrebbe arrivare dopo una riforma epocale del sistema penale prevista per il 2019. Così facendo verrebbero spente anche le polemiche relative al “blocco della giustizia”, come conseguenza della riforma della prescrizione.

Il punto di incontro tra i partiti di maggioranza è stato lo spostamento della riforma della prescrizione al 2020, segnando una netta vittoria di Matteo Salvini nel braccio di ferro ministeriale.

Perché è una vittoria leghista? Innanzitutto il leader del Carroccio, tramite il suo Ministro della PA, ha potuto modificare l’agenda del Ministro della Giustizia, il pentastellato Bonafede, poi è riuscito a salvaguardare il suo rapporto con Forza Italia (nel giro di un anno può succedere di tutto) e a mantenere viva l’alleanza, ma soprattutto è riuscito a posticipare gli effetti di tale riforma che decoreranno a partire dal 2020, previa riforma della giustizia.

Ma i problemi della maggioranza non finiscono qui. Le “parole” di conforto espresse per l’emergenza maltempo in tutta Italia, con la Sicilia, il Veneto e la Liguria in ginocchio, gli stanziamenti del Governo (53 milioni di euro per 11 regioni) sono insufficienti, questo perché il reddito di cittadinanza e il superamento della Fornero, a bilancio, hanno determinato una netta diminuzione degli investimenti pubblici. Il gesto dei parlamentari grillini di devolvere la loro indennità parlamentare alle popolazioni interessate dal maltempo è sicuramente lodevole, ma, opinione personale, credo che il contratto di Governo debba essere messo da parte per rimettere in sesto le infrastrutture del nostro Paese, gravemente compromesse dagli esecutivi precedenti.

L’argomento “infrastrutture”, porterebbe ad aprire un’altra breccia all’interno dei cuori degli italiani: la TAV, la linea ferroviaria ad alta velocità facente parte di un trentennale progetto europeo che comprende tutto il continente, e il TAP, il gasdotto che porterebbe in Puglia (e in Europa), dalla Turchia, il metano. Entrambi i progetti, su cui il Movimento Cinque Stelle ha espresso opinioni contrastanti, soprattutto in campagna elettorale, presentano (come tutte le grandi opere) sia dei benefici sia dei danni. I benefici, nel caso della TAV, riguarderebbero l’aumento sostanziale degli spostamenti su rotaia delle merci, più rapidi, con un aumento dei guadagni. I costi, invece, non interessano il lato economico della vicenda (1,2 miliardi di euro ancora da investire per il tratto finale), bensì dal punto di vista delle falde acquifere messe a repentaglio dalle perforazioni. Senza contare che la penale costerebbe più del tunnel (3 miliardi di euro più i costi di riqualificazione di ciò che dal 2006 è stato convertito). Il Gasdotto Trans-Adriatico, invece, è un’opera che ha più un tratto geopolitico che economico (la possibilità, per l’Europa, di essere meno dipendente dalla Russia), con dei costi assolutamente non trascurabili: le spiagge su cui sorgerà l’enorme opera pubblica sono annoverate tra le eccellenze italiane, delle mete turistiche che portano enormi guadagni alla regione Puglia. Anche qui, la penale è una bella mazzata, circa 20 miliardi di euro. Il Movimento Cinque Stelle, reo di aver fatto campagna elettorale toccando i cuori dei NO Tav e No Tap, non ha tenuto conto degli eventuali costi per uscire da queste opere di rilevante importanza strategica per l’Italia e per l’Unione Europea. Ora, a seconda della decisione che il Governo prenderà, il Movimento rischierà di perdere una piccola fetta di elettori.

Questo articolo non vuol essere un attacco al Governo e in particolar modo verso il Movimento Cinque Stelle che, dal canto suo, ha ottenuto alcuni risultati importanti come l’abolizione dei vitalizi e delle pensioni d’oro. Inoltre, il lavoro somministrato, un male per l’economia, soprattutto per le statistiche, e per i lavoratori italiani, è stato bersagliato da Di Maio e dai Cinque Stelle e finalmente smontato. Sicuramente l’attuale Governo, e in particolar modo il Movimento Cinque Stelle, non può essere additato come il responsabile delle situazioni che si sono create precedentemente, alcune protette da segreti di stato inaccessibili alle opposizioni.

Ma le giustificazioni finiscono qui.

A livello internazionale, al di là della recente sentenza della Corte di Giustizia sulla riscossione dell’ICI dalla Chiesa che potrebbe rappresentare un problema per il Governo, la lotta tra Italia e Unione Europea sulla legge di bilancio non si placa. Bruxelles, entro il 13 Novembre, ha preteso un DEF rivisto e nel frattempo ha provveduto alla stesura delle previsioni economiche che sfiorano quelle italiane (addirittura sul 3%). L’UE non è campionessa delle previsioni, basta vedere quelle greche, altalenanti a seconda se il Governo al potere era subordinato alla Merkel oppure no. Però, dall’alto della sua autorità, l’ente sovranazionale riveste un’importanza strategica per le “opinioni di mercato e di affidabilità”, scoraggiando o incoraggiando gli investitori a portare i loro capitali in Italia. Il linguaggio di Tria, Ministro dell’Economia, e Moscovici, Commissario Europeo al bilancio, sembra diverso e incompatibile, con l’italiano che insiste nell’affermare la bontà (e le buone intenzioni per la crescita) dei dati e il francese, fino a poco tempo fa soprannominato il “Salvini in terra di Francia” per le sue dichiarazioni sovraniste, che ribatte chiedendo all’Italia di riallinearsi alle imposizioni europee. Il destino del nostro Paese è comunque scritto con l’Unione Europea che attiverà la macchina delle sanzioni o dei tagli ai fondi strutturali come operato in Spagna alcuni anni fa per lo stesso motivo (sanzioni poi ritirare a causa del default greco), mettendo a rischio i progetti dell’esecutivo “buon intenzionato” di colore giallo e verde.

La soluzione dovrebbe portare alla fine del “un dialogo tra sordi” in atto in questo momento tra le istituzioni e la ripresa di un confronto mirato al benessere dei cittadini europei e al perseguimento di quello che teoricamente dovrebbe essere un diritto inalienabile ma sempre più sottovalutato: il diritto al perseguimento della felicità attraverso la sostanziazione dei mezzi di sussistenza economica/sociale necessari. Ciò potrà essere perseguito soltanto affermando il ruolo dell’Italia e dell’Europa come pionieri dell’intesa tra vecchio e nuovo, professionalità e intraprendenza. Il rigore, severo ed esagerato, non è la strada giusta. 

E la responsabilità internazionale del ruolo italiano nello scacchiere geopolitico ed europeo mondiale è nelle mani del Presidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte. Di recente, dopo aver incassato la fiducia di uomini del calibro di Donald Trump (uscito ridimensionato dalle Midterm Elections, pur avendo scongiurato l’ondata democratica apocalittica annunciata precedentemente) e Vladimir Putin, si è fatto promotore di un incontro tra mondo arabo e il mondo occidentale nella Conferenza Internazionale di Palermo sulla situazione libica. Purtroppo gli interessi in ballo sono tanti, soprattutto quelli di carattere economico. Infatti, la Francia, nonostante i moniti internazionali di perseguire una “politica comune” con l’Italia, ha preso la decisione di giocare una sua partita sostenendo indirettamente il nemico che l’ONU sta combattendo: Khalifa Haftar. I leader occidentali, comunque, avranno la possibilità di provare a risolvere una controversia molto complicata che vede coinvolti anche gli interessi italiani in terra africana, in primis il petrolio dell’ENI nel deserto libico. A circa un mese dall’evento, non sono ancora arrivate le conferme dei principali leader europei, mentre quelli del mondo arabo (Tunisia, Egitto, la Libia di Al Sarraj, milizie di Misurata) saranno presenti a Palermo. Questa sarà un’occasione che, probabilmente, permetterà a Conte di conoscere (e di influenzare) i componenti di uno snodo importante del Mediterraneo.

Il mese di Novembre, quindi, sarà l’ennesimo importante banco di prova di questo Governo che ormai ha abituato i suoi elettori a vivere “alla giornata”, a causa non solo della maggioranza traballante ma anche degli eventi interni ed internazionali che in qualche modo esercitano un’influenza rilevante sull’operato. L’esecutivo dovrà essere bravo nel garantire, soprattutto in terra straniera, la salvaguardia degli interessi italiani.

Ci troviamo di fronte ad un Governo composto da “fatti”, fiumi di “parole” ma anche da “buone intenzioni”, sempre ben accette se finalizzare al benessere dei cittadini. 

Donatello D’Andrea