Addio al monaco paladino del Tibet che sfidò la Cina

Palden Gyatso, 33 anni tra carcere, torture e lavori forzati
Palden Gyatso, 33 anni tra carcere, torture e lavori forzati

ROMA. – Non è famoso e celebrato come il Dalai Lama ma alla causa del Tibet ha dato tutto il monaco Palden Gyatso, morto a 85 anni a Dharamsala, capitale tibetana in esilio. Oltre un trentennio di detenzione in Cina tra carceri, lavori forzati, torture e, dopo la liberazione nel ’92, l’esilio e la scelta di portare in giro per il mondo la sua testimonianza di paladino per la libertà di Lhasa.

Una vita lunga, nonostante le lesioni conseguenza delle sevizie e gli anni passati tra le sbarre o nei campi di rieducazione, che Gyatso ha definito una “benedizione” perché – ha raccontato – “ho visto tanti amici morire davanti a me mentre io sono sopravvissuto”.

La sua verità l’ha raccontata ne ‘Il fuoco sotto la neve’, libro-testimonianza di una incredibile storia di resistenza iniziata con l’arresto nel ’59, a 26 anni. Le accuse di sovversione delle autorità cinesi, le torture per estorcere la confessione, la paura della morte superata dalla forza delle convinzioni e dalla capacità di sopportare il dolore fisico sono le tappe di un calvario descritto senza tralasciare i dettagli più raccapriccianti.

“Una delle più straordinarie storie di sofferenza e resistenza. La sua fede nella giustezza della nostra causa e la sua indignazione per ciò che è stato fatto a tanti tibetani sono così profonde che non si è dato pace”, ha scritto il Dalai Lama nella prefazione dell’autobiografia. Nel ’92 l’insperata liberazione, e la fuga da Lhasa, per raggiungere la diaspora tibetana a Dharamsala, la ‘piccola Lhasa’ indiana, dove il Dalai Lama si rifugiò dopo l’invasione cinese del Tibet.

Per il monaco si mobilitarono Amnesty International e l’Onu, che lo invitò a parlare, mentre le autorità cinesi lo hanno definito un “criminale” sovversivo e hanno ripetutamente sostenuto che la tortura nelle carceri cinesi è proibita. Palden Gyatso fu protagonista di 12 giorni di sciopero della fame durante le Olimpiadi invernali del 2006 a Torino, per chiedere al Cio, in vista dei Giochi di Pechino del 2008, di esercitare pressioni sul governo cinese per migliorare la situazione dei diritti umani in Tibet. “Le Olimpiadi non sono soltanto gare – spiegò allora il monaco con una serenità che stupì tutti – ma sono uno spirito d’amore che unisce tutto il mondo”.