Brexit: May rischia la bocciatura, gli scenari del dopo

Cartelloni con la scritta "Vote Leave" durante la campagna per la Brexit
"Vote Leave" durante la campagna per la Brexit

LONDRA. – Il conto alla rovescia è scattato e da oggi la battaglia per la Brexit al Parlamento di Westminster entra nella fase cruciale: 5 giorni di dibattito per arrivare fra una settimana esatta, l’11 dicembre, al giorno del giudizio sull’accordo di divorzio dall’Ue raggiunto a Bruxelles dalla premier conservatrice Theresa May. Con sullo sfondo l’ombra di una bocciatura in grado di riaprire i giochi, ma anche di precipitare il Regno Unito nel caos più totale.

Il tentativo, in queste ore, è quello di scrutare le carte in mano ai fronti contrapposti, e le loro possibili mosse, laddove la conta finisse davvero per punire la May alla cui risicata maggioranza rischiano di mancare, stando ai pronostici, fino a un centinaio di voti (di Tory ribelli di diversa tendenza e alleati unionisti nordirlandesi del Dup), non compensati dall’ipotetica stampella d’una quindicina di ‘peones’ laburisti pro Brexit.

GOVERNO – In caso di esito sfavorevole della votazione, la premier non sarebbe in effetti automaticamente spacciata (per quanto non vadano escluse dimissioni immediate nello scenario d’una disfatta numerica umiliante). Secondo l’iter indicato a suo tempo dalla stesso esecutivo, e approvato dalla Camera dei Comuni, May avrebbe infatti 21 giorni di tempo per valutare il da farsi. Con la possibilità entro tale scadenza di tornare in aula con un accordo diverso (ammesso lo si possa rinegoziare, cosa al momento negata sia da Downing Street sia dall’Ue) o magari con un testo più o meno identico. Ma potrebbe pure far scattare (da subito o dopo i 21 giorni) il cosiddetto ‘no deal’, annunciando una traumatica Brexit senz’accordo: sbocco di cui – stando alle procedure previste al momento – il Parlamento potrebbe soltanto prendere atto, senza avere armi per opporsi.

FRONTE DEL NO – L’opposizione laburista, proprio per sgomberare il campo da questo spettro, punta tuttavia a far approvare prima del voto dell’11 un emendamento ‘anti no deal’ promosso dal presidente della commissione parlamentare sulla Brexit, Hilary Benn: documento politicamente, se non legalmente vincolante che ha già l’appoggio degli altri partiti di opposizione (dai LibDem agli indipendentisti scozzesi dell’Snp) e che sembra poter essere approvato con il sostegno di qualche decina di deputati Conservatori.

In ogni modo la vera mossa del Labour, dinanzi a una bocciatura dell’accordo May, arriverebbe all’indomani dell’11 con la già preannunciata mozione formale di sfiducia al governo che, se passasse, aprirebbe le porte ad elezioni politiche anticipate: vero obiettivo del leader laburista Jeremy Corbyn, convinto di poter cogliere la palla al balzo per sbarcare a Downing Street. Un orizzonte di fronte al quale non è d’altronde da escludere che la dilaniata maggioranza Tory provi a ricompattarsi: salvando la stessa May, subito dopo averne affondato l’intesa, o magari tentando di darsi un nuovo leader.

Non senza innescare uno stallo di cui spera di approfittare lo schieramento parlamentare trasversale pro Ue favorevole a un secondo referendum. Uno schieramento che non ha a sua volta numeri certi ai Comuni (dove per ora può contare su buona parte, ma non tutto il gruppo laburista, sui partiti minori d’opposizione e su un totale da definire di dissidenti Tory), ma che intende provarci fino in fondo. Tanto più dopo essere stato incoraggiato dal parere dell’avvocato della Corte di Giustizia Ue che proprio oggi ha riconosciuto il diritto di Londra di revocare “unilateralmente” la Brexit, purché prima del 29 marzo 2019, scadenza formale concordata per l’uscita.

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