Sempre più in pericolo le libertà di stampa e di pensiero

Le libertà di stampa e di pensiero sono sempre più in pericolo. Il 2018 è stato uno degli anni più difficili per gli operatori dell’informazione e per i mass-media. I governi totalitari e quelli con vocazione autoritaria, i clan mafiosi, i cartelli del narcotraffico, la criminalità organizzata in generale hanno aggredito in maniera sistematica giornalisti e fotografi. Nelle aree di guerra, poi, inviati e fotoreporter sono stati i soggetti più esposti.

Stando a “Reporters sans frontières”, sono stati assassinati 63 operatori dell’informazione, 15 per cento in più del 2017; 348 sono stati incarcerati e circa 60 sequestrati. Giornalisti e fotografi hanno subito abusi di ogni tipo nei teatri di guerra, come ad esempio Afghanistan o Siria, ma anche in paesi come Messico,  Nicaragua o Venezuela, in cui la violenza è ormai cronica.

In Italia e in Spagna la libertà di stampa non pare corrano gravi pericoli. Eppure stupiscono il linguaggio denigrante e volgare, con cui si riferiscono ai mezzi di comunicazione alcuni ministri in Italia e il sequestro di telefonini subito dai redattori del “Diario de Mallorca” e di “Europa-press” in Spagna.

In Venezuela, la stampa libera è pressoché inesistente. In edicola sono presenti solo i quotidiani che si sono trasformati in strumenti di propaganda politica, giornali che hanno rinunciato alla propria indipendenza o che non l’hanno mai avuta. Sono gli unici ad aver accesso alla materia prima o ai contratti pubblicitari delle aziende dello Stato. Il resto è stato obbligato a trasferirsi sulla web per sopravvivere. Ultimo fra tutti, El Nacional. Stando al “Colegio Nacional de Periodistas”, dal 2013 ad oggi in Venezuela hanno chiuso 41 quotidiani, 65 emittenti radio e 9 canali di televisione.

Le nuove tecnologie hanno senz’altro democratizzato il mondo dell’informazione ma l’hanno anche trasformato in una pericolosa palude. L’informazione, ieri, era approccio solo di esperti professionisti. L’autorevolezza di una firma, o di un quotidiano non si misurava attraverso i “like” ma attraverso la veridicità dell’informazione, la correttezza nella scrittura e la tempestività nel dare le notizie.  Le norme deontologiche non erano considerate “superate”, ma garanzia di serietà e influenza.

Oggi con la rete chiunque può improvvisarsi giornalista. Notizie false, manipolate, pubblicate molte volte per confondere e tante altre per denigrare, percorrono la web in lungo e in largo. Mentre i quotidiani seri, le firme autorevoli si soffermano sulla notizia per verificarne l’autenticità, interpellano le proprie fonti, e nel dubbio preferiscono non pubblicare; le “fake news” hanno nei follower la loro antenna moltiplicatrice. I giornalisti improvvisati non si soffermano a verificare. Importa loro solo la quantità di “like”. E poi, d’altronde, una menzogna ripetuta mille volte alla fine si trasforma in realtà. Il pericolo dei social-network sta proprio in questo: nella capacità di diffondere “fake news” e trasformarle in “real news”.

L’informazione onesta e verace, la critica seria e opportuna, l’analisi autorevole, ancora oggi danno fastidio. È per questo che alcuni politici preferiscono il cinguettio volatile e sterile all’informazione pensata; la disinformazione, all’informazione.

Il giornalismo serio, autorevole non morirà. Certamente si adeguerà alle nuove esigenze del lettore e approfitterà delle bontà che offrono le nuove tecnologie.  Sarà probabilmente più dinamico e versatile, ma non scomparirà. Non lo farà perché, al contrario di quanti oggi scommettono nel suo annientamento, i lettori continueranno a preferirli ai cinguettii della rete. Dopotutto, i fruitori dell’informazione possono anche cambiare ma, anche così, continueranno a cercare  voci autorevoli e la garanzia della notizia veritiera, confermata da fonti attendibili, più che dallo sciame di speculazioni senza alcun valore.

Mauro Bafile