Corbyn sfida May: “Elezioni per uscire da impasse Brexit”

Theresa May e Jeremy Corbyn.
Theresa May e Jeremy Corbyn. (ANSA/AP Photo/Kirsty Wigglesworth, pool)

LONDRA. – Il ritorno alle urne per “uscire dall’impasse” della Brexit. O almeno, Bruxelles permettendo, per rinviarne l’entrata in vigore. Jeremy Corbyn non cambia linea e rilancia in questi termini la sua sfida a una Theresa May in difficoltà, nell’ipotesi sempre meno accademica d’una bocciatura martedì 15 in Parlamento della ratifica del contrastato accordo di divorzio raggiunti dalla premier conservatrice con l’Ue.

Ma le urne a cui guarda in prima battuta il leader laburista non sono quelle di un secondo referendum, invocato dalla maggioranza degli iscritti e dei simpatizzanti del suo partito, a credere ai sondaggi, bensì d’un nuovo voto politico anticipato in grado in teoria di aprirgli le porte di Downing Street.

“Dico a Theresa May: se sei così convinta del tuo accordo, convoca le elezioni e lascia che sia il popolo a decidere”, ha tuonato oggi il ‘compagno Jeremy’ in un comizio a Wakefield, roccaforte rossa, ma anche a larga prevalenza brexiteer nella contesa del 2016. “Le elezioni non sono solo l’opzione più pratica, sono la più democratica”, ha insistito. Di sicuro avrebbero una strada procedurale più facile – ad avere i numeri per ottenerle – rispetto a quella della rivincita referendaria.

Per Corbyn, del resto, “la vera linea di divisione” nel Regno Unito “non è fra chi (nel 2016) ha votato Remain o Leave, ma fra i molti che lavorano e pagano le tasse e i pochi che fanno le regole a loro vantaggio e spesso le tasse le eludono”. Anche se poi la sua scommessa di cambiamento appare sospesa proprio sulla questione nodale della Brexit, o di quale Brexit, al cui proposito il numero 1 del Labour – figlio d’una sinistra radicale storicamente euroscettica – rimane trincerato sul vago. Sul fronte opposto della barricata,

May rifiuta d’altronde di arrendersi. E certo di aprire alcuno spiraglio sia all’idea del referendum bis sia a quella delle elezioni anticipate, a meno che Corbyn non riesca a raccogliere una maggioranza dietro la mozione formale di sfiducia al governo che è pronto a presentare laddove l’accordo della premier non dovesse passare. Ipotesi quest’ultima che continua a essere assai probabile, eppure non senza qualche piccolo segnale positivo per la premier.

Reduce da una giornata nera, segnata dall’approvazione di un emendamento bipartisan che obbliga l’esecutivo in caso di bocciatura a presentare entro 3 giorni proposte per un piano B, lady Theresa si è oggi unita alla polemica contro lo speaker dei Comuni, John Bercow, ma ha anche iniziato a cercare di risalire la corrente.

Non solo e non tanto incassando la benedizione del premier giapponese Shinzo Abe all’accordo, visto come unica alternativa sicura all’incubo di un no deal temuto anche dalla schiera d’investitori nipponici nel Regno visto che l’Ue insiste a escludere ogni rinegoziazione.

Ma soprattutto grazie alla mano tesa ricevuta pubblicamente da un’avanguardia di deputati laburisti ‘dissidenti’ – eletti in collegi pro Brexit e guidati dall’anti-corbynista John Mann – disposti a votare sì in cambio del sostegno del governo a un loro emendamento che garantisca il mantenimento degli standard europei nelle tutele dei lavoratori, dell’ambiente, del sistema sanitario. Mentre ha spuntato un’apertura di credito, oltre che dalla Confindustria britannica, da due dei più influenti leader sindacali organici al Labour: Len McCluskey, di Unite, e Tom Roache, di Gmb.

Intanto, nel dibattito ai Comuni, i suoi ministri hanno strappato il ripensamento a favore dell’intesa di due ex Tory ribelli, la colomba George Freeman e il falco Edward Leigh. Non basta, ma sono i primi e non è detto siano gli ultimi.

(di Alessandro Logroscino/ANSA)

Lascia un commento