May s’inchina ai falchi: “Ue riapra l’accordo sulla Brexit”

Il Primo Ministro Theresa durante una riunione al consiglio d'Europa. Brexit
Il Primo Ministro Theresa durante una riunione al consiglio d'Europa. EPA/OLIVIER HOSLET

LONDRA. – Altro giro, altra corsa. Il piano B di Theresa May sulla Brexit è l’ennesima tappa d’un andirivieni, finché dura: “tornare a Bruxelles” per cercare di ottenere dall’Ue nel giro di due settimane, entro il 13 febbraio, ciò che non le è riuscito di portare a casa in due anni. Ossia un accordo non dissimile da quello chiuso a novembre con l’Ue – ma poi affondato a Westminster in sede di ratifica – purché alleggerito dei vincoli del backstop sul confine aperto in Irlanda per renderlo digeribile a una maggioranza risicata di deputati, con l’auspicato ritorno all’ovile dei falchi Tory brexiteers e degli alleati unionisti nordirlandesi del Dup.

Come puntello a quello che ha invocato alla stregua d’un “mandato di rendere chiaro all’Ue ciò che il Parlamento britannico vuole”, la premier si appoggia a un emendamento alla mozione con cui oggi ha avviato la ripresa del dibattito ai Comuni. Promosso dall’euroscettico sir Graham Brady, in modo da impegnare il governo a tornare alla carica con l’Ue per provare a strappare “soluzioni alternative” al backstop, e fatto proprio dall’esecutivo. Di fatto si tratta di un precario arrocco, per usare un’immagine scacchistica.

Del tentativo di uscire dallo stallo rimettendo insieme per quanto possibile i cocci della coalizione originaria di governo, senza concessioni trasversali alle opposizioni, e aggrappati al mantra del rispetto della volontà popolare pro Brexit espressa nel referendum del 2016. Ma si tratta di una mossa che rischia di non fare i conti con l’oste. Vale a dire con l’atteggiamento dell’Ue, dove per ora ogni rinegoziazione sostanziale appare fuori questione.

In attesa della ripresa dei contatti diretti con May, che Downing Street ha già annunciato a partire da oggi, il presidente francese Emmanuel Macron è il primo a rispondere picche. Mentre Manfred Weber, capogruppo tedesco dei Popolari all’Europarlamento, nota come l’accordo esistente sia “un compromesso fra molti interessi”. E come modificarne un punto, secondo la richiesta “unilaterale” del governo britannico, significherebbe “riaprire tutto. A essere onesti – taglia corto – non credo abbia senso”.

Il percorso indicato da lady Theresa per districarsi dallo stallo in casa sua non esclude d’altronde l’ipotesi di un buco nell’acqua. Tanto da prevedere fin d’ora che ella torni in aula il 13 febbraio in tutti i casi. Sia con un nuovo accordo saltato fuori per miracolo; sia con una dichiarazione di fallimento accompagnata da ulteriori proposte sul da farsi: entrambi “emendabili” ed entrambi da sottomettere a un nuovo voto. Un voto che a quel punto sarà cruciale, a differenza di quelli indicativi di oggi. Ma la cui attesa non scioglie certo il velo dell’incertezza. Perché sulle alternative resta il muro contro muro.

Nei loro emendamenti, le opposizioni e la trincea dei dissidenti Tory pro Remain insistono nel tentativo d’imporre l’obbligo al governo di chiedere all’Ue un rinvio della Brexit oltre la data fissata del 29 settembre, in caso di empasse prolungata fino al 26 febbraio, per allontanare lo spettro di una Brexit no deal che il leader laburista Jeremy Corbyn e molti altri (imprese, sindacati e capo degli 007 Usa inclusi) paventano come “catastrofico” per l’economia britannica.

Ma Theresa May ripete per ora i suoi ‘no’, rifiutando impegni di sorta, oltre a liquidare come illusorie e prive di maggioranza parlamentare le opzioni di un secondo referendum o di nuove elezioni. Per Corbyn, questo significa essere disposti a mettere il Paese di fronte “al pericolo di un no deal” di default. Epilogo che del resto un sinedrio di notabili conservatori – dal super falco Jacob Rees-Mogg all’eurofila moderata Nicky Morgan, di orientamento diverso, ma ugualmente decisi a rimanere al potere – stanno prendendo in considerazione nell’ambito di una sorta di piano C che May ha già fatto sapere di considerare degno di valutazione, se tutto andasse male.

Piano che immagina di uscire formalmente dall’Ue il 29 marzo senz’accordo, ma non del tutto: con una transizione dello status quo allungata a fine dicembre 2021 in cambio dell’impegno britannico a pagare comunque alla fine il conto di divorzio già concordato in 39 miliardi di sterline. E col tacito consenso a definire il futuro nella forma d’un mero trattato di libero scambio fra Londra e i 27.

(di Alessandro Logroscino/ANSA)