Abruzzo e Sardegna: il tonfo dei Cinque Stelle e il trionfo della Lega

Dopo le batoste elettorali in Abruzzo e Sardegna, Di Maio è chiamato a fare ammenda sul futuro del Movimento. FOTO REPUBBLICA

Le elezioni regionali in Sardegna hanno emesso il proprio verdetto. Dopo un lungo spoglio, il centrodestra sbaraglia la sinistra e si prende l’ennesima roccaforte in mano al Partito Democratico. Christian Solinas, il candidato prescelto dal “trio” (Meloni, Salvini, Berlusconi) sarà il nuovo Governatore della regione, dopo un testa a testa con Massimo Zedda, candidato del centrosinistra, terminato troppo presto con un’abissale differenza di 15 punti percentuali.

Il 48% con cui il centrodestra ha sbaragliato i suoi avversari è la prova tangibile del trionfo del “modo di fare politica” dell’attuale Ministro dell’Interno, Matteo Salvini, e del suo modus operandi comunicativo. Infatti, i risultati della Lega sono strabilianti, soprattutto se si tiene in considerazione il fatto che fino al 2014 del Carroccio in Sardegna non c’erano tracce.

Ma tutto ciò non deve sorprendere. La propaganda salviniana, spinta ai massimi livelli da quando la Lega è partito di governo, ha mandato in crisi il resto del panorama politico italiano, compresi i grillini, attuali alleati del leader leghista.

Niente hanno potuto Massimo Zedda, supportato dal PD e da chilometriche liste civiche e Francesco Desogus, lo sconosciuto candidato grillino che ha registrato una sonora, plateale e prevista sconfitta. Il primo, al di là del risultato, deve quel 33% alla sua popolarità e non al supporto del Partito Democratico che incassa l’ennesima sconfitta che avrà delle serie ripercussioni sulla sua immagine e sulla sua influenza politica. E nonostante i vari leaderini di sinistra festeggino questa figuraccia come una vittoria, la sconfitta è stata coperta solo dal divino intervento delle liste civiche, ancora una volta dopo l’Abruzzo. Il secondo, invece, deve la sua sconfitta al fatto che il suo nome risulti sconosciuto ai più.

Infatti, quelle sarde non sono state le uniche elezioni che hanno decretato un deciso cambio di passo della politica italiana. In Abruzzo, un paio di settimane fa, si sono tenute delle elezioni molto importanti, più di quanto si possa immaginare. Le “regionali con vista Europa”, così ribattezzate dalla stampa italiana, sono state il primo banco di prova del governo, dei suoi provvedimenti e della fiducia degli elettori nei confronti della nuova classe dirigente. I risultati sono simili a quelli ottenuti dai partiti italiani in Sardegna: trionfo della Lega e tonfo del Movimento Cinque Stelle, con il PD che scampa dalla figuraccia grazie alle liste civiche. Il “mantra” è ancora lo stesso: la Lega si presenta per la prima volta in una regione al di sotto della “linea gotica”, sbaraglia la concorrenza e consegna la regione al centrodestra unito. Il 27,8% ottenuto dal solo Carroccio è la fotografia di questo successo storico, soprattutto se confrontato con l’11% del PD e il 19% del M5S, che solo un anno prima aveva ottenuto il 40% all’interno della regione.

In sostanza i risultati di entrambe le elezioni regionali hanno decretato il fallimento del modello progressista, sostenuto dal Partito Democratico e dalla sinistra europea in generale, e l’affermazione dei valori nazionalistici, a tratti estremi, della destra nostrana. Infatti, se è pur vero che il centrodestra unito è il vincitore di entrambe le tornate elettorali, la realtà è un’altra: è la Lega a muovere i fili dei conservatori italiani. Berlusconi e la Meloni, anche se decidessero di unire le loro forze, non riuscirebbero a colmare il gap con Salvini. Al contrario, l’azionista di maggioranza del Governo Conte, il M5S, è entrato in una crisi distruttiva che nel giro di un anno ha decapitato metà dell’elettorato grillino. Il vincitore morale delle politiche del 4 marzo, secondo gli ultimi sondaggi (confermati dai risultati delle regionali – 19% in Abruzzo e 11% in Sardegna-) è sceso dal 32% al 23%. Una spirale catastrofica che di diritto deve essere confrontata con la contemporanea scalata della Lega, dal 17% al 33%.

I voti persi dai grillini, paradossalmente, sembrano virare proprio verso il suo alleato governativo, almeno in Abruzzo, mentre le preferenze sarde hanno preso un’altra strada: quella del candidato Massimo Zedda che ha ottenuto un risultato addirittura superiore rispetto alle liste che lo supportavano, come se il valore del candidato superasse le differenze ideologiche.

Dunque da un lato abbiamo due partiti, differenti, che si aggrappano ai rispettivi leader, regionali (PD) o nazionali (Lega) che siano, e dall’altro, invece, c’è un Movimento che, nonostante non abbia mai ottenuto risultati strabilianti alle regionali, sta perdendo la sua influenza politica e il suo elettorato all’interno delle regioni che soltanto un anno fa gli consegnarono la legittimità a governare il Paese.

L’origine di questo tracollo è di difficile interpretazione. Sulla decisione abruzzese e sarda di non rinnovare la fiducia ai pentastellati hanno influito sicuramente la mancanza di una leadership forte e coerente all’interno del Movimento, così come la decisione di votare contro l’autorizzazione a procedere nei confronti del Ministro Salvini sul caso Diciotti. Il tradimento dei principi cardine dello statuto grillino, tra cui il giustizialismo, lo spirito anti-casta e soprattutto la rinuncia all’immunità, ha fatto storcere il naso agli elettori più intransigenti che, spinti anche dai dubbi sull’efficacia dei provvedimenti messi in campo dal governo, hanno deciso di virare su altri partiti. Non si sa quanto questa decisione sia stata corretta e quanto l’ancien régime si preoccuperà delle due regioni in questione.

Fatto sta che i dati sono impietosi: 300.000 elettori hanno voltato le spalle al Movimento Cinque Stelle in Sardegna, quattro elettori su cinque hanno preferito affidare il proprio destino ad un altro partito. Queste preferenze, come accennato nei paragrafi precedenti sono finite nelle tasche del centrodestra (circa 150mila), come mostrano i rilevamenti dell’Istituto Cattaneo. Altri 39mila, invece, hanno raggiunto Massimo Zedda che, dal canto suo avrebbe sperato sicuramente di ottenere di più. Se in Abruzzo il PD sperava di poter recuperare i voti dei grillini disillusi tramite le liste civiche (che hanno salvato il PD dal tracollo totale, ricordiamolo), in Sardegna Martina, Zedda, Zingaretti e company sono stati costretti a rifare i calcoli.

Ciò che resta da capire è il perché una fetta dell’elettorato pentastellato abbia preferito affidarsi alla Lega abbandonando la propria causa. Se a livello locale i grillini hanno perso terreno e le Lega ne ha guadagnato, sicuramente una correlazione tra i due eventi ci deve essere, una sorta di rapporto causa-effetto.

Il protagonismo mediatico-comunicativo del leader del Carroccio è l’effetto della mancanza di una leadership forte all’interno del Movimento. Ci sono “troppe teste” all’interno del partito dei grillini; Di Battista, Di Maio, Roberto Fico e tanti altri con opinioni contrastanti che unite a dichiarazioni contraddittorie danno l’immagine di un crogiolo di ragazzi che non sono capaci di mantenere una linea comune su una determinata questione. Un esempio? Le dichiarazioni di Giarrusso prima e dopo la negazione dell’autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini. L’anima giustizialista del Movimento si è arresa alle necessità di Governo. La paura di una crisi di governo, da cui i grillini sarebbero potuti uscirne rafforzati, ha portato i suoi leader ad infrangere quel famoso statuto che, sulla carta, costituirebbe la spina dorsale del partito. Al contrario, una perenne campagna elettorale (a costo zero poiché s-parlare d’immigrazione o bloccare una nave in mare non costa nulla in termini di “erario”) ha portato Salvini dal 17 al 33% dei consensi.

La propaganda, figlia di questo nuovo populismo e di una politica fatta non più di temi e di ideologie ma da cori da stadio, è il vero ingrediente che sta alla base del successo della Lega, un partito che da un lato sorride agli alleati di governo e dall’altro si candida in coalizione con gli stessi partiti che a Montecitorio siedono all’opposizione. 

L’ingombrante alleato di governo con la sua verve comunicativa sta lentamente fagocitando l’alleato grillino che, dal canto suo, soltanto recentemente ha compreso il pericolo e si è messo sulla difensiva. Purtroppo, però, l’iniziativa è ancora a tinte leghiste come dimostra la velocità con cui Di Maio ha messo in campo il progetto del reddito di cittadinanza che, essendo un provvedimento economico dall’ampia portata (è come regalare 7 miliardi di euro ad uno sconosciuto), avrebbe bisogno di una discussione più seria (l’assunzione dei “navigator” non convince nessuno). Al reddito di cittadinanza, si aggiunge anche il TAV che, oltre a rappresentare un tema scottante tra i due alleati, è finito ancora nel mirino a causa delle parole del Ministro dell’Economia, Giovanni Tria.

Dichiarazioni, decisioni e provvedimenti. Questi sono i tre punti che non convincono gli elettori che, nelle due ultime regionali, hanno preferito virare verso altri orizzonti, un orizzonte incerto. Incerto come il destino di questo Governo dopo le Elezioni Europee di Maggio 2019.

Le due tornate elettorali appena concluse sono state molto importanti perché hanno permesso di comprendere a che punto si trovano i partiti italiani. Se da un lato la Lega ha potuto constatare che il lavoro intrapreso qualche anno fa dall’attuale Segretario sta dando i propri frutti, dall’altro Luigi di Maio ha capito che per rilanciare il Movimento in ottica sovranazionale sono necessari alcuni aggiustamenti e una riorganizzazione che punti alla ricostruzione di una ragione sociale comune, forte e senza slogan inutili e dannosi.

Luigi di Maio, descritto dai suoi come “solo e circondato da persone che lo consigliano male”, è chiamato ad un umiliante mea culpa.

Le responsabilità del M5S sono tante, a partire da quella più importante: la fretta di ricercare a tutti i costi un’alleanza di governo con un partito così diverso e distante dagli standard dei grillini. Un partito appartenente alla casta che, seppur formalmente diverso da Forza Italia, intrattiene con quest’ultimo rapporti di potere all’interno delle regioni e addirittura condivide delle poltrone all’interno della Lombardia e del Veneto (forse uno dei motivi per cui Salvini continua a seguire il Berlusca). Inoltre, dall’alto del loro 32% i grillini hanno lasciato l’iniziativa al vecchio volpone (Salvini) che, grazie al suo carisma e alla sua abilità comunicativa ha addirittura scavalcato il Presidente del Consiglio Conte in alcune decisioni importanti e ha invaso, senza conseguenze, lo spazio politico riservato ad altri Ministri (come sui porti con Toninelli). Queste libertà, concesse e mai negate, hanno fatto prendere il largo a Salvini che ora risulta praticamente intoccabile, come ha dimostrato la vicenda Diciotti. La paura di precipitare è stata più forte dell’affermazione dei propri valori. Ora, con la Lega sul 30% e due regioni perse è impensabile mettere in pericolo la tenuta dell’esecutivo.

L’11,5% della Lega, seppur non sia un risultato impressionate (per vari motivi, a partire dal fatto che il Partito Sardo d’Azione questa volta correva da solo nel sostenere Solinas, alle politiche invece confluì nella Lega – Solinas è un senatore della Lega -), sottolinea come gli italiani si siano lasciati corteggiare dalla propaganda populista, apparentemente più vicina e congeniale. Propaganda che ha permesso a Salvini di penetrare (e non sfondare) per la prima volta in una regione del Sud Italia. Forse è questo il risultato più importante, al di là del tracollo del Movimento Cinque Stelle.

In sostanza, il centrodestra cresce e lo spettro del post-Elezioni Europee si fa sempre più nitido. Se la Lega staccherà i grillini di un buon 15-20% cosa succederà al Governo Conte? Non bastano le dichiarazioni rassicuranti. E’ normale dare un’occhiata ai sondaggi e rimuginare sul futuro di un contratto che ha portato alla fine di un partito e alla rinascita di un altro. Se prima non c’erano dubbi sulla tenuta futura del governo, ora, tante sono le domande che gli elettori più acuti si pongono: “Perché Salvini tende ad allearsi con il centrodestra all’interno delle regioni se questo una volta seduto a Montecitorio contesta ogni provvedimento che esce fuori dalle stanze di Palazzo Chigi?”; “Perché non provare a cambiare il sistema dall’interno, magari assieme al Movimento Cinque Stelle?”; “Perché i grillini continuano a difendere imperterriti il proprio alleato, permettendogli di fare il bello e cattivo tempo, invece di far valere il proprio 32%?”; “Perché non riorganizzare il partito attorno ad una figura forte e coerente con le linee guida dello statuto pentastellato?”

Sono domande legittime, provenienti da una folta schiera di elettori delusi – o meglio, disillusi -che per una ragione o per un’altra hanno abbandonato un partito che non li rappresenta più e si sono affidati ad una scheda nulla (12mila solo in Sardegna) o all’astensione (molto alta in entrambe le regioni). Il tifo da stadio, in questo caso come in ogni caso politico, non aiuta. Per ripartire il Movimento ha bisogno di fare ammenda, acquisendo la consapevolezza che il proprio modus operandi ha comportato una ricaduta sulla leadership interna ed esterna, sulla fiducia dei votanti e sulla stabilità del partito stesso, poiché non sono solo gli elettori a prendere le distanze da Di Maio & Company, ma anche gli stessi eletti.

Dunque, onde evitare spiacevoli sorprese (come una repubblica mono-partitica, alla Orban per intenderci), occorre che il Movimento si riorganizzi in fretta (alcuni già parlando di un ritorno alle origini: no apparizioni in TV, no slogan, no annunci), con serietà e professionalità, attorno ad un leader capace e carismatico. Il M5S, per ora, è l’unico partito in grado di tenere in apprensione Matteo Salvini, attualmente il miglior politico italiano (politico nel vero senso della parola, capace di far politica). Gli altri, come il PD, finché non si riorganizzeranno seriamente e coerentemente con la propria ragione sociale, rifondando l’intero sistema che ruota attorno alla Segreteria (pensata come un altare sacrificale e non come un punto d’arrivo), continueranno a cadere nell’oblio senza possibilità di risalita.

A Di Maio, o a chi n’è capace, l’onere di rimettere in piedi un giovane partito con una preoccupante crisi d’identità.

Donatello D’Andrea

 

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