Bugie e promesse tradite, le illusioni sulla Brexit

Manifestazione a Londra a favore di un ritorno all'Ue. Brexit
Manifestazione a Londra a favore di un ritorno all'Ue. (ANSA)

LONDRA. – “Vogliamo tutto e subito”. Chi l’avrebbe mai detto che lo slogan più avventato del ’68 sarebbe riecheggiato mezzo secolo dopo sulla scena politica del Regno Unito, Paese europeo storicamente refrattario come nessun altro – almeno nelle istituzioni e nella sua tradizione più prosaicamente pragmatica – ai sogni, agli azzardi, alle illusioni rivoluzionarie. Per di più dalla bocca dei cantori della Brexit, quasi tutti conservatori e figli (più o meno indisciplinati) dell’establishment dominante. Invece, in qualche modo, è andata proprio così.

A dimostrarlo è il florilegio di proclami temerari, facilonerie, promesse a vuoto o come minimo premature e talora bugie smaccate che hanno punteggiato questi anni: a partire dalla campagna referendaria sull’uscita dall’Ue, ma anche prima. Un’antologia di citazioni che, letta oggi, rischia di fare arrossire ben oltre la pur massiccia dose ordinaria di impegni traditi che ogni competizione elettorale porta con sé.

A scavare nel passato, incluso fra le profezie più apocalittiche del fronte filo-Ue, gli altarini in onore della sventatezza o dell’inganno si trovano ovunque. Ma non c’è dubbio che la madre di tutte le sparate resta quella condensata nel numero riprodotto a caratteri cubitali sul bus rosso della campagna ‘Vote Leave’ che nel 2016 scarrozzò Boris Johnson a far comizi in giro per il Regno: “350 milioni di sterline”, cifra che l’Nhs, lo zoppicante sistema sanitario nazionale di Galles e Inghilterra, avrebbe dovuto preparasi a incassare ogni settimana grazie alla fine dei versamenti al bilancio Ue, a dar retta all’ex sindaco Tory della capitale.

Una somma poi ricalcolata da Theresa May in 20,5 miliardi spalmati lungo un quinquennio, come frutto d’un presunto “dividendo della Brexit”, ma che ospedali e ambulatori pubblici d’oltremanica saranno probabilmente costretti ad attendere a lungo: tenuto presente che l’unico numero per ora controfirmato è il conto iniziale del divorzio a carico di Londra, pari ad almeno 39 miliardi in pounds.

Fra le affermazioni non esattamente prudenti imputate al facondo Boris – e spiattellata adesso per le strade del Paese con altre su maxi poster affissi da un drappello di attivisti pro Remain – l’assicurazione che l’addio al club europeo si sarebbe tradotto in un repentino “risparmio di denaro e recupero del controllo” per i sudditi di Sua Maestà. “Il giorno dopo aver votato Leave disporremo di tutte le carte (per negoziare il divorzio) e scegliere la soluzione che vorremo”, furono invece a poche settimane dal referendum del giugno 2016 le ultime parole famose d’un altro boss della battaglia per la Brexit, l’attuale ministro dell’Ambiente, Michael Gove. Noto per aver adombrato inoltre un fantomatico rischio d’invasione di turchi sull’onda di un’adesione di Ankara all’Ue oggi più remota che mai.

Altrettanto appannata s’è rivelata alla prova dei fatti la sfera di cristallo del ministro in carica del Commercio Estero, l’euroscettico Liam Fox, ricordando il luglio 2017: quando Fox non esitò a sentenziare che una nuova intesa sugli scambi commerciali con i 27 sarebbe stata “una delle più facili della storia”.

E così pure quella d’un quarto notabile Tory brexiteer, David Davis, fra i cui vaticini memorabili si rammenta quello secondo cui il Regno sarebbe stato in grado di chiudere di volata con Bruxelles “un accordo commerciale e doganale per il marzo 2019”; termine entro cui si sarebbe dovuto materializzare altresì “un trattato di libero scambio con un’area ben più grande” dell’Europa continentale: salvo il fatto che nulla di tutto questo è accaduto e che nel frattempo, semmai, il vecchio David s’è dimesso da ministro della Brexit, poltrona sulla quale si sono già avvicendati altri due titolari. Lo stesso Davis rischia del resto di rimpiangere – ora che si oppone a un referendum bis – anche una sentenza pronunciata in un passato più lontano, correva l’anno 2012: “Se una democrazia non può cambiare idea, cessa di essere una democrazia”.

Una certa cautela va viceversa riconosciuta a Nigel Farage, ex tribuno dell’Ukip, il quale, azzeccando in pieno nel maggio 2016 il risultato referendario uscito dalle urne un mese più tardi, ammise che vincere “52 contro 48%” avrebbe significato trascinare “una vicenda incompiuta per lungo tempo”.

Cautela che risulta aver fatto difetto nel gennaio 2017 all’assai meno pittoresca May, categorica nell’escludere da Downing Street una Brexit soft con la Gran Bretagna “metà dentro e metà fuori”. Anche se l’Oscar epocale dello scivolone retorico spetta in fondo di diritto al suo predecessore, David Cameron. “Mentre i genitori pensano alla cura dei figli, a dove mandarli a scuola, a come bilanciare lavoro e vita familiare, noi ci azzuffiamo sull’Europa”, disse nel 2006 da giovane leader dei Conservatori l’uomo che esattamente 10 anni dopo – da primo ministro – avrebbe portato il Paese al referendum e a ciò che ne è seguito.

(di Alessandro Logroscino&ANSA)