Don Ciotti: “Ci preoccupiamo per i giovani ma non ce ne occupiamo”

MADRID – “C’è tanto bisogno del ‘noi’ e non dell’io”. Una manciata di parole dal messaggio profondo. Incontriamo don Luigi Ciotti in una saletta isolata dell’hotel nel quale alloggia. Puntualissimo ci riceve con il sorriso e la semplicità del parroco di campagna. Nessuno, al vederlo, immaginerebbe che quel sacerdote, da oltre messo secolo, è protagonista di battaglie che mettono al centro dell’interesse l’essere umano, i giovani, le fasce più deboli della popolazione, i poveri e, oggi, gli immigrati. Iniziamo la nostra conversazione con una domanda su un argomento che ci brucia, che ci indigna e allo stesso tempo ci mortifica:

– Nei giorni scorsi, in un rione della capitale, alcune decine di romani, hanno evitato che rappresentanti di organizzazioni sociali portassero pane a un campo Rom. Non solo, hanno calpestato con disprezzo quel pane che avrebbe sfamato bambini e anziani. Siamo veramente tanto crudeli gli italiani? Siamo veramente così razzisti?

– Attraversiamo un momento molto difficile – spiega Don Ciotti -. Se la nostra democrazia oggi è malata, è perché la Costituzione è stata in gran parte tradita. Perché la Costituzione torni ad essere il potere del popolo e l’espressione di tutti i cittadini è necessario che la politica sia nuovamente al servizio del bene comune. Le leggi devono tutelare i diritti non il potere; devono contribuire a costruire la giustizia sociale e non disuguaglianze e discriminazioni. Noto che oggi la nostra Democrazia, la nostra Costituzione sono state tradite con scelte populistiche che devono inquietarci. Non possiamo restare indifferenti. Soprattutto, non possiamo stare né zitti né inerti a guardare. Nel 1919, dopo la Prima Guerra Mondiale, il Partito Socialista in Italia guadagnò un milione 800 mila voti. Benito Mussolini – prosegue – ottenne circa 4mila 500 preferenze. Tre anni dopo, è andato al potere con la marcia su Roma. La sua campagna elettorale fu costruita su una sola idea: “scavare nel rancore degli italiani”.

Sostiene che non è sua intenzione fare paragoni, ma, afferma, “è lo stesso clima che si respira oggi: scavare nelle paure degli italiani”.

– E quali sono queste paure? – si chiede per rispondersi dopo una breve pausa riflessiva:

– Una è certamente quella economica. La crisi economica, negli ultimi anni, ha fatto aumentare la povertà sia quella assoluta sia quella relativa. C’è la paura del cambiamento. Non si vedono grandi prospettive. Tutto è incerto e precario. C’è, poi, una profonda paura della solitudine. Mancano punti di riferimento solidi, forti. Lo si vede, lo si sente, lo si percepisce. C’è anche una paura dello straniero, dell’altro, del diverso. E c’è chi fomenta questa miscela di paure. Faccio un esempio, c’è chi afferma che con l’immigrante è aumentata la criminalità. Non è vero.  I dati dimostrano il contrario. La criminalità è diminuita. Ci sono linguaggi che non aiutano a comprendere. Con gli slogan non si ragiona. E invece bisogna ragionare con i fatti, con i contenuti, con ricerche serie e attente. Assistiamo alla violenza delle parole.

– In questo momento non c’è solo la violenza delle parole, c’è anche la violenza dei fatti. Mantenere immigranti per giorni in balia delle onde e non permettere alla nave che li ha salvati di entrare in un porto, è una violenza incomprendibile.

– Le parole sono azioni – commenta -, devono aiutare a cogliere il senso profondo dei fatti e non ad alimentare divisioni. Bisogna fare una bonifica delle parole nel nostro Paese. Quanto accaduto in questi giorni a Roma – prosegue -, è un fatto preoccupante perché si moltiplica. È anche una vergogna. Stiamo vivendo l’emorragia della memoria e un’emorragia di umanità. Ecco, stiamo perdendo l’umanità. Il Censis, che ogni anno ci consegna la fotografia del Paese, nel 52esimo rapporto, mostra come l’Italia abbia bisogno di verità e di Giustizia. Nel rapporto Censis si parla di un Paese in declino, in cerca di una sicurezza che non trova, ma anche di un’Italia disgregata, impaurita, incattivita.

A suo avviso il fenomeno che mostra il rapporto del Censis “è tutto frutto delle semplificazioni e delle parole fuori posto”; di una società che “si crede forte ma è debole”. Don Ciotti considera che “il disagio abbia le sue radici nella disgregazione dei legami sociali, nell’emergere di solitudini, di fragilità e di fratture anche dell’anima”. Fa notare che oltre al disagio visibile è cresciuto quello invisibile che si nasconde dietro i muri delle case.

– Se andiamo all’interno di questo rapporto – ci dice – possiamo individuare due elementi che per me sono importanti. Il primo è senz’altro la solitudine degli italiani. Viviamo in tempi poveri di relazioni e, quindi, anche poveri di speranza. Il secondo, inquietante, è che l’Italia, in Europa, è il fanalino di coda negli investimenti per istruzione e formazione. Io e te amiamo l’Italia. E’ il mio Paese, è la mia storia, sono le mie radici. In queste parole, non c’è retorica, non c’è demagogia. In Italia, una scuola perde un giovane su tre nei primi 5 anni delle “superiori”. Abbiamo oltre due milione di giovani che hanno terminato la scuola ma non trovano collocazione. Un Paese che non investe sui giovani, che non si prende cura dei giovani, è un paese che si suicida. Non ha avvenire.

– Giusto il contrario delle politiche che caratterizzano i paesi del nord-Europa, che spendono nella formazione dei giovani. Questo atteggiamento di non voler dare il permesso alle navi che salvano vite nel Mediterraneo, questa politica di chiusura nei confronti dell’immigrazione in che modo influisce sul clima che si vive oggi in Italia? Qual è il messaggio che si trasmette con questi atteggiamenti?

– Abbiamo innanzitutto emorragia di memoria – sottolinea -. Abbiamo dimenticato che siamo stati anche noi un popolo di emigranti. Abbiamo dimenticato la nostra storia, le lotte per la libertà, per l’uguaglianza, per i diritti… Abbiamo anche emorragia di umanità. Stiamo perdendo il senso dell’umano. Questi immigrati li stiamo respingendo nei peggiori dei modi. E qui c’è anche una vergogna dell’Europa. I Paesi fondativi dell’Europa giocano allo scarica barile, sulla pelle di tanti poveri cristi.

Dopo una breve pausa, scandendo le parole, prosegue:

– Non dobbiamo dimenticare che quella degli immigranti, oggi, nella stragrande maggioranza, è una deportazione indotta. Fuggono dalla miseria, dalla fame, dai conflitti, dalle guerre. Provengono, in gran parte, da paesi dell’Africa, da colonie dell’Occidente. Noi li abbiamo insultati, resi schiavi nei secoli e adesso li respingiamo. Non ci sono più colonie intese nel vecchio senso, ci sono le multinazionali dei paesi occidentali che portano via le loro risorse. E’ un altro modo di sfruttamento. Abbiamo un debito ecologico. E’ un problema che va affrontato. Ed è questo il ruolo che deve svolgere la politica che è invece in mano alla grande finanza. Si è perso di vista il senso profondo del mettere sempre al centro la vita delle persone.  C’è solo la centralità del profitto, degli interessi.

– Gli immigrati, oggi, sono anche le prime vittime della Mafia, del caporalato…

– E’ stata fatta una legge voluta dal basso: dai movimenti sindacali, da Libera con tutte le sue organizzazioni – sostiene -. E’ una legge sul lavoro nero e sul caporalato. Le leggi però non possono solo restare scritte sulla carta. Devono essere carne, vita, concretezza. Devono essere applicate. Passi in avanti sono stati fatti, ma non sono sufficienti. Quest’anno il 21 marzo, nella Giornata della Memoria e dell’Impegno, Legge dello Stato per ricordare le vittime innocenti della violenza criminale e mafiosa, sono stati inseriti tanti nomi di immigranti, vittime del caporalato. C’è mafia, c’è modalità mafiosa, c’è sfruttamento, c’è violenza.

– Qual è la sua lettura delle mafie? Hanno avuto un’evoluzione?

Don Ciotti parla con la passione che il tempo non è riuscita a mitigare. Con un linguaggio semplice, capace di creare interesse e trasmettere entusiasmo, scandendo le parole ci spiega che “l’Italia si è fermata, nella lettura delle mafie, a Falcone e Borsellino”.

– Sono passati 27 anni – continua – . Le mafie sono cambiate. Tocca anche a noi leggere il nuovo. Io continuo a dire in Italia che il problema non sono gli immigranti ma i corrotti, i mafiosi. Sono i parassiti che uccidono dal di dentro, che ci impoveriscono, che corrodono il sistema, che tolgono il lavoro, la libertà, la dignità. Oggi c’è questa forte commistione. La chiamo area grigia, tra quella legale e quella illegale. Le mafie hanno quattro nuove dimensioni. Non lo dico io, è il frutto di anni di lavoro della Commissione Nazionale Antimafia, della Direzione Nazionale Antimafia dei Magistrati, delle antenne di una società civile organizzata presente sui vari territori nel nostro Paese e in Europa. Cosa ne viene fuori? Cito testualmente: “le manifestazioni mafiose storiche italiane hanno fatto registrare ampie trasformazioni, assumendo formule organizzative e modelli di azioni sempre più multiformi e complessi”. Le mafie, dopo le stragi di Capaci e di D’Amelio, sono state colpite duramente. C’è stata una risposta emotiva, forte, da parte delle istituzioni. Loro allora hanno capito che dovevano cambiare. Lo Stato aveva risposto ma poi, col tempo, si è andati verso la normalizzazione. Ed esse sono tornate forti. Non lo dice Ciotti. Lo dicono gli organismi ufficiali. Nel rapporto c’è un’altra frase: “Le mafie sono cambiate ma la loro identità è sempre legata al raggiungimento del potere, ricchezze…”. Ed allora, quali sono le nuove quattro dimensioni in Italia? Primo: progressivo allargamento del raggio di azione delle mafie in territori diversi. Non c’è regione d’Italia che può considerarsi esente. Le mafie, poi, hanno investito tanto anche all’estero. Secondo: profili organizzativi flessibili e reticolari. Costruiscono alleanze tra di loro. Terzo: accentuata vocazione imprenditoriale espressa nell’economia legale. Le mafie fanno impresa. Trovano la collaborazione di altri o costringono imprenditori onesti ad allearsi con loro. Si collocano all’interno di quest’area grigia, al confine tra la legalità e l’illegalità. E’ un confine molto mobile, poroso, che oscilla tra lecito e illecito. Criminalità e corruzione sono difficili da sconfiggere. Non è impossibile, ma non è semplice perché non sono avversari che si combattono a viso aperto.

Ci spiega che è stata presentata una carta europea, un’agenda politica con proposte legislative per dire che non basta la risposta repressiva.

– Le mafie – commenta – arrivano quando trovano leggi molto deboli. E’ necessario in Europa rafforzare la collaborazione tra gli stati membri, tra le agenzie europee. Lo è anche coinvolgere la società civile. La storia di Libera parla chiaro: è un coordinamento di associazioni, di movimenti, che cresce e si allarga, che vuole assumere la sua parte di responsabilità. Non possiamo attendere il futuro fermi solo a realizzare dibattiti e convegni. Non possiamo attendere il futuro arroccati sulle ansie, sulle paure.

– Cosa fare?

– Il futuro ci chiede di accoglierlo inventandoci forme nuove, modalità nuove – risponde immediatamente, quasi si attendesse la nostra domanda -. La presenza della criminalità mafiosa e della corruzione ci esige di metterci in gioco. A mio avviso, la più grande povertà oggi è rappresentata dall’immigrazione, dai giovani. Soprattutto dai giovani, perché una società che non scommette sui giovani non scommette sul proprio futuro. La nostra è una società che si sta suicidando. Ma non dobbiamo mollare. Anche se siamo piccoli e fragili, dobbiamo lottare.

– Recentemente a Verona si è svolto un convegno sulla famiglia, quel è la sua opinione?

– Faccio fatica anche a rispondere – ammette rattristato-. Ho vissuto già solo l’annuncio con molta amarezza e sofferenza. Mi sembra un’espressione che ci fa tornare indietro negli anni. Non vuol dire mortificare i dibattiti. Sono le modalità che mi fanno soffrire. Questi rigurgiti non mi piacciono. Non sono un teologo. Ho cominciato a 17 anni quest’avventura. 20 anni di Gruppo Abele… Sono un semplice diplomato in telefonia e telegrafia. Ho fatto un po’ di teologia, ma molto poco. Sono un sacerdote, e sono felice di esserlo. Vivo con la gente e ho lottato per la dignità e la libertà di tutti. Soprattutto non mi stanco di dire quello che affermava un grande cardinale, Carlo Maria Martini: “Dio non è cattolico, Dio è di tutti”.

– Ma ha l’autorità di una vita di lotta. E’ un sacerdote che è stato sempre accanto ai più deboli…

– E continuerò ad esserlo – ci dice -. Ho detto che è una vergogna. Ma quello che dico io non ha peso. Io sono perché si guardi avanti, si costruisca, ci si incontri. ad esempio – ricorda -, diedi una mano a far nascere il movimento Davide e Gionata. E’ un movimento che è partito tanti anni fa grazie a Ferruccio Castellano, uno stupendo giovane che non c’è più. Lui aveva una condizione omosessuale, ma aveva anche una condizione di fede profonda. Il suo vescovo mi chiamò dicendomi: “Ho un bravissimo animatore di azione cattolica nella mia diocesi che vive questa condizione. So che ti occupi di tutta una serie di cose…”. Abbiamo dato vita a questo movimento, per la vita, per il rispetto delle persone. Chi di noi si può permettere di giudicare, di etichettare?

Recupero dei tossicodipendenti. Lei ha una vasta esperienza in materia. Il dibattito sulla legalizzazione della droga, almeno di quelle leggere, è sempre attuale. Qual è la sua opinione?

– E’ un capitolo che ci ha sempre accompagnato nella storia – ammette -. Appartengo ad un gruppo che è nato con me e che ha 54 anni di storia. Quando ho cominciato non c’era.

– Oggi sono tante le droghe sintetiche…

– Quando è arrivata l’eroina, ci siamo battuti affinché si aprissero i servizi pubblici, che non c’erano – prosegue -. Il Gruppo Abele scese in strada a lottare perché ci fossero politiche che non criminalizzassero le persone, che offrissero loro opportunità. La nostra è stata una battaglia nata a Torino, nata col Gruppo Abele. E’ nata autodenunciandoci, quando ancora la legge indicava che, se avevi un problema, andavi da un dottore e gli chiedevi di darti una mano, lui aveva l’obbligo di denunciarti. Se ti denunciava andavi in carcere o in un istituto psichiatrico. Il problema cresceva ma non c’erano sbocchi: o l’ospedale psichiatrico o il carcere. Io mi sono sempre battuto perché non fossero criminalizzate le persone ma i trafficanti, i poteri forti che si nascondono dietro chi consuma. Quella è la vera sfida, la grande battaglia di ieri come di oggi. Abbiamo avuto degli alti e dei bassi. La nostra campagna fu educare e non punire. Adesso, l’eroina in Italia è tornata più forte di 30 anni fa – ci dice con rammarico -. L’Onu parla del 30 per cento in più. Dice che ci sono un’offerta e una domanda. E la domanda, mi fermo al nostro paese, è l’onda lunga. La domanda cresce perché sono diminuite le opportunità, gli spazi, il lavoro. C’è un mondo sempre più debole e sempre più fragile. Va fatta una grande riflessione. Serve o no depenalizzare? Credo che non bisogna far pagare alle persone… la lotta è al grande traffico, non ai piccoli spacciatori. Restano comunque dei grossi dubbi.

Sostiene che esiste una grande ipocrisia. A suo avviso è “inutile scrivere sul pacchetto di sigarette che nuoce alla salute, che porta alla morte”.

– Se fa male, fa male – dice -. Non è perché ci sia il monopolio dello Stato che quelle sigarette possono essere vendute. Lo stesso vale per la droga leggera. Si faccia un’analisi seria su tutte le forme di dipendenza. Io sono pieno di dubbi. A volte penso che la legalizzazione potrebbe essere una strada. Ascolto gli esperti. Ho avuto un’esperienza con il Gruppo Abele. Per spazzare via quelle sostanze, devi dare motivazioni, creare interessi, costruire opportunità. Devi riempire la vita dei giovani, dare loro un senso. Altrimenti, se non c’è quella sostanza, ne useranno altre. Questo vale per tutti. Resta il tema della prevenzione, la grande sfida culturale, il sostegno delle famiglie, il ruolo della scuola, e cosa offrono concretamente a questi ragazzi in un mondo sempre più virtuale. Io credo che il nostro compito sia di accompagnarli, di scommetterci. Noi continuiamo a farlo… Nel Gruppo Abele, dove vivo, continuiamo a fare questo. Lavoriamo anche con le nuove forme di dipendenza. Chi avrebbe detto anni fa, e noi ce ne stiamo occupando, che sarebbero diventati tanti, tantissimi i dipendenti dall’Internet e dai telefonini. Giovani che si chiudono dentro se stessi, che tagliano ogni relazione, entrano in un mondo virtuale, si isolano. 50 anni fa non avrei mai pensato che avremmo dovuto anche noi modificarci per accogliere le nuove dipendenze. E quindi è una riflessione più amplia quella che deve essere fatta. I ragazzi, quando trovano dei punti di riferimento veri, coerenti, credibili, s’infiammano, ci sono. Sono meravigliosi. Questa è una società che si preoccupa per i giovani ma che non se ne occupa. Io parlo guardando un po’ il nostro paese. Abbiamo dati preoccupanti. Ci preoccupiamo di loro ma non li rendiamo protagonisti, non li rendiamo partecipi. Scuola e azione. Ha ragione Francesco quando dice che i disastri ambientali, i disastri sociali non sono due crisi diverse ma una crisi socio-ambientale. Noi dobbiamo lottare per i diritti umani, ma anche per i diritti della natura. Se non rispettiamo i diritti della natura, ci stiamo suicidando. Io sono nato nel cuore delle Dolomiti, a Pieve di Cadore, nessuno avrebbe mai pensato che in quattro ore, qualche mese fa, otto milioni di piante, sarebbero volate via. Abbiamo un’isola di plastica più grande della Spagna e della Francia che viaggia per il mondo. Se non ci fermiamo a riflettere…

Per concludere, si sofferma sul suo saggio “Lettera a un razzista del terzo millennio”.

– L’ho scritto . ci dice – per smontare certi ragionamenti, certi slogan. Con gli slogan non si ragiona. Non si può stare zitti e soprattutto non si può stare inerti. Questo libretto è diventato il secondo nella classifica della saggistica. Io non sono uno scrittore, non sono un saggista. Ho però una certezza: oggi c’è tanto bisogno del ‘noi’ e non dell’’io’.

Mauro Bafile

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