Pechino affila le armi, yuan ai minimi da quattro mesi

Una persona cammina per strada vicina ad una colonna con le indicazioni dei cambi del giorno
Una persona cammina per strada vicina ad una colonna con le indicazioni dei cambi del giorno. EPA/SEDAT SUNA

PECHINO. – I prodotti agricoli e dell’energia sono i primi del made in Usa a rischiare il blocco dell’import cinese, insieme al forte taglio di ordini di aerei alla Boeing. Le “necessarie contromisure” di Pechino ai dazi americani, al 25% in vigore da venerdì su 200 miliardi di dollari di beni ‘made in China’ importati, hanno preso forma oggi: il governo ha reso noto che il target è su 60 miliardi di beni, dal primo giugno. Sono misure a più livelli, anche su prodotti colpiti nel 2018, e le tariffe sono al 25% su 2.943 beni, al 20% su 1.078, al 10% su 974, mentre sono 595 i beni che restano fermi al 5%.

Pochi, malgrado gli inviti ai negoziati, credono che Pechino possa fermarsi qui, avendo a disposizione più leve. Lo yuan, sul fronte valutario, ha perso oltre l’1% sul dollaro, segnando uno spot rate di 6,8805, ai minimi dal 3 gennaio. A fine aprile, al Forum Belt and Road, il governatore della Banca centrale Yi Gang aveva escluso svalutazioni competitive, nei giorni in cui però le parti non si lesinava ottimismo sull’imminente accordo.

Altra opzione è l’ostracismo alle società statunitensi, in primis finanziarie, ora che la Cina ha annunciato di favorire l’accesso al suo mercato di player stranieri. Altri timori sono sull’adozione di misure “qualitative”: da ispezioni vessatorie (fiscali e di sicurezza, ad esempio), al ritardo del rilascio delle licenze fino ai controlli infiniti alle dogane. Da aprile, alla Ndrc, l’agenzia più alta di pianificazione, compete l’esame “sulla sicurezza economica” degli investimenti stranieri. Potrà, ad esempio, bloccare l’investitore qualora sia di un Paese lacunoso di reciprocità con la Cina.

E’ facile, quindi, immaginare ritorsioni pensando ai casi Huawei e Zte. Su Twitter, Hu Xijin, editor-in-chief del Global Times, il tabloid del Quotidiano del Popolo (“voce” del Pcc), ha scritto che “molti accademici cinesi stanno discutendo la possibilità di ‘scaricare’ titoli del Tesoro Usa e su come farlo in modo specifico”. Un’arma più volte brandita in passato e che mostra gravissimi rischi: a febbraio, su 6.385,1 miliardi di titoli di Stato Usa in mano a stranieri, la fetta cinese era la più grande (1.130,9 miliardi, peraltro poco mossi da ottobre) seguita da quella giapponese (1.072,4 miliardi). Azioni ostili farebbero crollare anche i valori dei titoli nel suo portafoglio.

Indicazioni emergono dai dati: nei primi 4 mesi del 2019, il surplus commerciale della Cina sugli Usa si è attestato a 83,66 miliardi: l’export è sceso del 9,7% e l’import di ben il 30,4% per effetto delle politiche di Pechino sulla diversificazione degli approvvigionamenti. Senza contare, poi, le spinte alla autosufficienza: il ministero dell’Agricoltura ha appena annunciato che l’obiettivo 2019-20 è produrre soia per 17,27 milioni di tonnellate (+7,9%), ai massimi degli ultimi 14 anni. La Cina comprava il 60% della soia Usa dai coltivatori che sono un grande bacino elettorale del presidente Donald Trump.

(di Antonio Fatiguso/ANSA)