Libro rivela, i cittadini credono più a brand che a politica

La copertina del libro "Corporate Diplomacy. Perché le imprese non possono più restare politicamente neutrali"
La copertina del libro "Corporate Diplomacy. Perché le imprese non possono più restare politicamente neutrali"

ROMA. – I brand, più forti della politica in termini di fiducia da parte dei cittadini consumatori e (da tempo) in termini economici devono dotarsi di una propria politica estera aziendale. E’ la tesi del libro “Corporate Diplomacy. Perché le imprese non possono più restare politicamente neutrali” di Vittorio Cino e Andrea Fontana (Egea) che è stato presentato a Roma.

Il punto di partenza è una situazione in cui il 52% dei consumatori intervistati per il rapporto Edelman 2018 è d’accordo sul fatto che i brand possano essere più efficaci dei governi per risolvere emergenze sociali e quasi metà di loro ritiene che i brand abbiano idee migliori e più innovative per affrontarle. Così, a 20 anni dalle proteste del movimento no global, secondo Cino e Fontana, la legittimità dei brand “a scendere in campo in maniera diretta e robusta sul piano sociale o politico è un dato di fatto”, anche in campi tradizionalmente off-limits.

Quando il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha iniziato a separare i bambini che varcavano la frontiera con il Messico dai loro genitori, le principali multinazionali del paese si sono schierate contro questa politica sull’immigrazione. La stretta rischiava, infatti, di avere ripercussioni anche sulla loro immagine in importanti mercati di sbocco.

“Sempre più i grandi brand hanno un’agenda globale, quindi devo avere una strategia, valori e linee guida globali”, spiega l’autore Vittorio Cino, Eu public affairs director di Coca Cola, in occasione della presentazione del libro a Roma in un dibattito con il direttore de Il Foglio, Claudio Cerasa, l’ex Ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda e il direttore relazioni istituzionali di Leonardo Paolo Messa. Cino delinea una nuova figura professionale, quella del diplomatico aziendale, per affrontare questo nuovo scenario.

Il rischio di errori, del resto, è in agguato, come dimostrano casi come quello della Global Climate Coalition (Gcc) tra grandi aziende energivore le cui azioni di lobby aggressiva sui temi ambientali, negli anni Novanta, si sono rivelate controproducenti. Un caso più recente è in Italia, con la rinuncia di Bc Group all’investimento nel rigassificatore di Brindisi, nel 2012, per l’incapacità di raggiungere un accordo con le comunità locali.

Davanti al nuovo attivismo dei brand, gli autori segnalano che spesso c’è una politica incapace di sviluppare un rapporto pubblico-privato “realista, utile e costruttivo”, e interlocutori “con un atteggiamento polarizzato tra la demonizzazione ideologica a prescindere e l’accettazione acritica di ogni proposta che arriva dall’industria, che – spiega Cino – è altrettanto dannosa”.

Lascia un commento